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venerdì 6 settembre 2019

l giuramento "sobrio" dei giallo-rossi: Costa che batte i tacchi, Bonafede con la mano sul cuore. E Conte strizza l'occhio a Di Maio
05 SETTEMBRE 2019
Al Quirinale molti "vincitori" del nuovo corso politico. Il più emozionato è Patuanelli, neo ministro dello Sviluppo. E lo stile è molto diverso dal lunapark dell'era gialloverde 
DI CONCETTO VECCHIO

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L'immagine simbolo è Giuseppe Conte che strizza l'occhio a Luigi Di Maio, quando il capo politico del M5s giura da ministro degli Esteri. L'8 agosto, quando Matteo Salvini aprì la crisi sembravano entrambi morti politicamente e invece eccoli lì, risorti al termine della più incredibile vicenda politica della nostra storia repubblicana.

Di Maio è uno dei vincitori, e si vede. Mantiene un ministero pesante e con Riccardo Fraccaro ha messo a palazzo Chigi un uomo di sua stretta fiducia. Infatti Di Maio non smette un minuto di ridere.

Accanto a lui il prefetto Lamorgese, neoministra dell'Interno al Quirinale: lei gli parla lungamente e Di Maio sempre annuisce, sempre ridendo.

L'altro trionfatore qui nel salone delle Feste al Quirinale è Giuseppe Conte, che sprizza felicità da tutti i pori.

Il terzo vincitore è Dario Franceschini, il demiurgo dell'accordo, tutti lo omaggiano rispettosi e nella foto ricordo non casualmente finisce accanto al presidente Mattarella.

Altre immagini: Bonafede che giura con la mano sul cuore, Costa che davanti a Mattarella batte i tacchi, Patuanelli emozionatissimo, Amendola che ricorda Angelo Vassallo, il sindaco ucciso 9 anni fa dalla camorra, Costa e Patuanelli si danno un cinque, Costa poi dà un bacio a Bellanova.

Clima disteso, sobrio, molto diverso da quello stile lunapark del giuramento del gialloverde un anno fa, si vede che quelli del Pd hanno esperienza di queste cerimonia e che per il M5s è già cominciato il tempo della normalità democratica.

Durerà? si chiedono tutti all'uscita? Chissà

Tra Conte e Di Maio si parte già con una lite sul ruolo di Fraccaro
04 SETTEMBRE 2019
Il capo grillino impone il suo fedelissimo come sottosegretario alla presidenza del Consiglio dopo un violento scontro: "O lui o salta tutto". Conte si piega (ma poi lo degrada). Berlusconi a Zingaretti: "Per la legge elettorale ci siamo anche noi"


DI TOMMASO CIRIACO E ANNALISA CUZZOCREA

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Per centoquaranta minuti Luigi Di Maio ha minacciato di far precipitare l'Italia in una nuova crisi di governo. Succede quando il leader lascia lo studio di Giuseppe Conte, sbattendo la porta.

Le dieci sono passate da venti minuti. Il premier gli ha appena spiegato che non può accettare Riccardo Fraccaro come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Non uno con un passato che tutti conoscono come pupillo della Casaleggio associati, sentinella scelta nel 2013 da Gianroberto Casaleggio per controllare il gruppo della Camera.

"Non è una scelta appropriata, lo capisci?", prova a farlo ragionare il premier. Preferirebbe Roberto Chieppa, segretario generale di Palazzo Chigi, con cui ha lavorato benissimo. Il nuovo ministro degli Esteri, però, è un muro. "Se non accetti questa condizione, per me possiamo chiuderla qui".

È una minaccia sproporzionata, il sintomo di uno scontro tra leadership per il controllo del Movimento e del suo futuro. Il rilancio di Di Maio è inaccettabile per il Pd, né può digerirlo il Presidente del Consiglio.

Sergio Mattarella, intanto, attende Conte al Quirinale. Ed è costretto a spendere una mattina in attesa che il capo dei 5S dia il via libera a una lista che ha scelto di bloccare per imporre un suo uomo fidato.

La lite è grave. Umanamente, prima ancora che politicamente. Da giorni, infatti, Conte aveva deciso di promuovere Chieppa. Lo considera il migliore per gestire tecnicamente una macchina che dovrà già fare a meno dei due vicepremier. Ma è proprio questa la "colpa" dell'avvocato, ad ascoltare quanto fa trapelare Di Maio.

"Hai già accettato il veto del Pd sul mio nome per la vicepresidenza del Consiglio - gli urla il grillino - non posso tollerare che si ripeta". Sostiene che i patti erano altri, ma Conte gli ricorda di aver chiesto già al rientro dal G7 di Biarritz una sola casella: quella pretesa per Fraccaro.

La verità è che la bocciatura alla vicepremiership brucia ancora troppo. Di Maio si sente accerchiato. Martellato da voci che riportano di forti perplessità interne e internazionali per il suo futuro alla Farnesina. Ha bisogno di blindare la macchina di Palazzo Chigi, imponendo Fraccaro per ricevere in tempo reale il resoconto delle mosse dell'avvocato.

È già passata un'ora. Conte telefona a Zingaretti. Avverte il Quirinale, si scusa per l'inciampo che fa slittare il colloquio. Entrano in campo i mediatori, bussano alla porta di Di Maio distante pochi metri dall'ufficio del premier.

Fallisce anche l'ipotesi di compromesso, che porterebbe Vincenzo Spadafora nel ruolo che fu di Giorgetti: per il capo 5S è troppo autonomo, nonostante il curriculum "dimaiano". E troppo in sintonia con Dario Franceschini per meritare una promozione. Il premier, alla fine, accetta Fraccaro. Sono le 12.40. Ma è infuriato. E lancia una contromossa destinata a riaccendere lo scontro: Chieppa viene comunque indicato come sottosegretario alla Presidenza. Avrà "deleghe importanti in ambito legislativo".

Non parteciperà al consiglio dei ministri, certo. Ma gestirà comunque tutti i dossier più delicati. È una sfida silenziosa e letale a Di Maio. E punta a ridimensionare il ruolo di Fraccaro. Un po' come accadde quando Paolo Gentiloni, in rotta con Matteo Renzi, iniziò a non coinvolgere Maria Elena Boschi - allora sottosegretaria a Palazzo Chigi - in molte decisioni cruciali dell'esecutivo.

Chiuso il "caso Fraccaro", intanto, la lista è pronta per essere consegnata a Mattarella. Anche perché gli altri scogli vengono risolti in fretta: Franceschini sceglie la Cultura - e non la Difesa, la scelta considerata ideale dal Colle - e libera la casella del ministero appena lasciato da Trenta a un altro nome gradito al Quirinale, Lorenzo Guerini. Anche le residue resistenze su Roberto Gualtieri all'Economia si dissolvono. Conte può sciogliere la riserva.

Mentre Di Maio riunisce i suoi uomini a Palazzo Chigi, provato da uno scontro che cancella ogni festeggiamento, Conte rientra a Palazzo. E inizia a preparare il discorso programmatico che pronuncerà lunedì alla Camera per chiedere la fiducia. Vuole offrire alle forze di maggioranza un perimetro largo, che rimodelli il quadro e archivi lo strapotere di Salvini. Immagina una nuova fase, in cui pensa di dover essere protagonista. E per farlo, anche se non lo dirà, c'è bisogno del proporzionale.

Proprio la legge elettorale è già al centro delle trattative più delicate. E un dettaglio dice più di mille ragionamenti. Siamo alla fine della scorsa settimana. Squilla il telefono di Nicola Zingaretti. È Silvio Berlusconi. "Se davvero volete il proporzionale, noi siamo pronti". Quando attacca, il Cavaliere è raggiante. Pensa di aver segnato un punto a suo favore. E inizia a chiamare i suoi dirigenti. "Ho parlato con Zingaretti - racconta - è una brava persona. Simpatico, gentile. Funziona bene anche in tv

Marco Travaglio | 6 SETTEMBRE 2019
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Nell’ultimo mese ho visto cose che voi umani nemmeno in una vita. Ho visto un energumeno da spiaggia chiedere i pieni poteri e poi perdere quelli che aveva dandosi un calcio in culo da solo. Ho visto un prof. avv. con la pochette a quattro punte brutalizzarlo in Senato come neppure Er Canaro. Ho visto 945 parlamentari rientrare dalle ferie appena iniziate con l’abbronzatura a strisce o a macchia di leopardo. Ho visto Renzi finire i pop corn e ingozzarsi di Pan di (5)stelle. Ho visto il direttore del Verano Illustrato strillare per mesi al ritorno del Duce e poi bivaccare in tv tutto funereo perché la rimarcia su Roma è rinviata a data da destinarsi. Ho visto Repubblica titolare “Voto subito (ma c’è chi dice no)” come la compianta Padania. Ho visto Giuliano Ferrara elogiare il Conte-2 e, ciononostante, nascere il Conte-2. Ho visto i giornaloni trasformare Conte da burattino a burattinaio. Ho visto Mattarella attendere pazientemente Rousseau. Ho visto il Pd vincere le sue prime elezioni dopo 13 anni, ma fra gli iscritti a un altro partito. Ho visto il bibitaro Di Maio, dato per defunto da tutti, mettere nel sacco i professionisti della politica e far loro ingoiare Conte, Fraccaro, Bonafede e se stesso, per giunta agli Esteri. Ho visto uno del Pd, Orlando, rinunciare a una poltrona da ministro.

Ho visto un Grillo battersi come un leone per fare un governo con chi gli disse “Se vuoi fare politica, fonda un partito e vediamo quanti voti prendi”. Ho visto il Cazzaro Verde scaricato da Trump e pure da Orbán, che gli preferiscono “Giuseppi” (nel senso di Giuseppe-1 e Giuseppe-2). Ho visto gli spiaggiati del Papeete passare dai selfie e i mojito con Matteo ai vaffa e ai pernacchi a Matteo. Ho visto mezzibusti e dirigenti Rai molto digitali mettere i like su Facebook a Salvini e poi informarsi in giro se i like si possono cancellare. Ho visto una telegiornalista ottenere un programmino Rai perché era in quota Lega e poi perderlo perché è in quota Lega. E ho visto Salvini che implorava i fan di chiamarlo ancora ministro (onorario? emerito?). A quel punto mi sono intenerito. I leghisti in erezione da up erano un filino inquietanti. Ma ora, in ammosciamento da down, costretti a cercarsi un lavoro e qualche hobby per il tanto tempo libero, fanno pena. I telefoni non squillano, i like scarseggiano, gli inviti in tv e a cena si assottigliano, le interviste diventano frasette liofilizzate in fondo al pastone dei tg. E chi prima millantava di conoscerli ora finge di non conoscerli. No, non può finire così. Il Fatto, sempre dalla parte dei più deboli, lancia la campagna “Adotta un leghista”. Se lo abbandoni in autostrada, il bastardo sei tu

L’incontro - Oggi l’ex premier vede Von der Leyen: l’Italia dovrebbe ottenere gli Affari economici

di Luca De Carolis | 6 SETTEMBRE 2019
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Il dem che più faceva muro all’accordo giallo-rosa ha avuto la poltrona che pretendeva, e anche per questo ostentava gelo per l’abbraccio tra gli opposti. E se tutto andrà come deve potrà guarnirla con la delega di maggior peso in Europa, quella agli Affari economici. Come previsto, Paolo Gentiloni sarà il Commissario europeo per l’Italia. Un incarico per cui l’ex presidente del Consiglio e ministro riceve su Twitter i complimenti perfino da Matteo Renzi, con cui era stata guerra evidente fino a qualche giorno fa, quando proprio l’ex segretario lo aveva accusato di aver provato a far saltare l’intesa tra dem e 5Stelle. Ora tutto sembra perdonato nel nome del nuovo assetto, e Gentiloni ringrazia volentieri Renzi, segnando il disgelo. Ma l’ex premier scambia tweet affettuosi anche con Enrico Letta e Carlo Calenda, insomma con le anime più diverse del Pd. E anche questo irrita pezzi del Movimento, mette in circolo tossine. Perché la sua nomina a tanti 5Stelle pare la prova incontestabile che il M5S è stato sconfitto nella partita delle poltrone. Così urlano al dono al “sistema”. Rumoreggiano, per il Gentiloni che stamattina a Bruxelles incontrerà la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen per provare a incassare la pesante delega agli Affari economici: e se difetta in competenza, dicono nei palazzi europei, il dem potrà compensare con il curriculum da ex premier per riuscire a prendere il posto del francese Pierre Moscovici.

Di certo sarà commissario e con una delega importante (ballano anche Concorrenza e Commercio). Una poltrona che può essere cruciale per il governo giallo-rosa. Ma diversi 5Stelle non ci stanno. A cominciare da quelli che a Bruxelles sono stati eletti, gli eurodeputati. E il primo della fila è il siciliano Ignazio Corrao, per anni vicinissimo a Luigi Di Maio, con cui però è stato scontro quando il capo politico impose cinque donne, esterne, come capilista alle Europee. Così ieri Corrao colpisce duro: “Complimenti a chi ha negoziato le posizioni di governo per il Pd. Economia, Commissario Ue e Affari europei e anche tutti i ministeri strategici per il Sud (agricoltura, infrastrutture, sanità, sud). Dove noi prendiamo i voti”.

Un’accusa al Di Maio che secondo tanti grillini ha sbagliato molto al tavolo della trattativa, tutelando “solo se stesso e pochi uomini di sua fiducia” come sibila un 5Stelle di rango. Così su Facebook protesta anche un altro eurodeputato, il lucano Piernicola Pedicini: “Non riconosco più il mio Movimento, siamo costretti ad assistere inermi alla consegna dell’Italia al Pd in Europa e ai signori dell’austerità, a quelli che hanno messo in ginocchio le nostre piccole e medie imprese”.

E dietro c’è anche una rabbia che montava da settimane. Perché il gruppo in Europa chiedeva di essere consultato sul nome da indicare alla Ue e, magari, che fosse scelto tra uno di loro. Ma da Roma nessuno li ha ascoltati, raccontano. Neanche quando hanno fatto filtrare che, anche per il ministero degli Affari europei, un eurodeputato avrebbe avuto le giuste competenze. E invece niente. Ma anche un veterano come il deputato Andrea Colletti dice no: “L’indicazione di Gentiloni come commissario Ue è il primo, si spera uno dei pochi, errori del nuovo governo. Spero che i nostri ci spieghino il perché di tale decisione e cosa non ha funzionato negli accordi”. E ovviamente c’è anche il tema di chi è rimasto fuori. Perché per il M5S siciliano, quello con più voti in pancia, è inaccettabile l’esclusione dal governo del capogruppo in Regione Giancarlo Cancelleri, che molti davano come ministro al Sud. Invece quel dicastero ora è dei dem. E non ha fatto certo piacere a Corrao.

Come non è un caso che su Twitter gli abbia risposto il consigliere regionale lombardo Dario Violi. Irritato, perché l’unico ministro della Lombardia è un dem (Lorenzo Guerini), mentre il 5Stelle Stefano Buffagni è rimasto fuori: “Con 10 milioni di abitanti e il 23% del Pil non potevamo rischiare di metterne uno anche nostro a rappresentarci”, ironizza. Senza sorridere

Peter Gomez | 6 SETTEMBRE 2019
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Incapaci come sono di comprendere cosa è accaduto e cosa accade tra la gente, le élite italiane hanno tirato un bel sospiro di sollievo. La nascita del governo Conte 2 è stata salutata come una sorta di rivincita dell’establishment europeo, dei mercati, dell’ordine costituito. Ma se nessuno oggi è in grado di dire se il nuovo esecutivo farà bene o male – i governi, spiegano gli inglesi, sono come i budini, si giudicano mangiandoli, non dall’aspetto – già ora si può affermare che qualcosa è cambiato nel rapporto tra cittadini e politica. Lo dimostra il fatto che per il Pd il voto tra gli iscritti M5S sul nuovo premier e il programma di governo non è più un caso di stregoneria informatica, ma semplicemente un modo per far esprimere uno degli organi di quel movimento: la base. Tanto che martedì 3 settembre, il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, ha definito il voto sulla piattaforma Rousseau “una procedura democratica che rispettiamo”. Su molti giornali, è vero, si sono letti interventi di esimi costituzionalisti, che pensavano l’esatto contrario. Sabino Cassese, sul Corriere della Sera, si è per esempio chiesto quando “il capo politico del M5S smetterà di giocare con la democrazia?” e molti altri gli hanno fatto eco. Il succo del ragionamento è questo: il voto online non è illegittimo, ma il fatto che sia avvenuto dopo l’incarico dato a Giuseppe Conte dal presidente Sergio Mattarella mette a rischio l’architettura costituzionale. Perché se i 115 mila iscritti al Movimento votassero no (hanno poi votato sì, ndr), finirebbero per delegittimare la scelta di far nascere un governo presa dai parlamentari pentastellati eletti con i voti di 11 milioni di cittadini. Se il risultato è negativo, si è domandato preoccupato Cassese, cosa si fa? La risposta è ovvia.

I parlamentari non avrebbero dovuto dare la fiducia. Ma questo, secondo Cassese, avrebbe rappresentato la rivincita del partitocrazia sulla volontà degli elettori M5S espressa in Parlamento tramite i loro eletti. Noi che eravamo dichiaratamente per il sì, pensiamo però il contrario. Certo, se ve ne fosse stato il tempo, sarebbe stato più opportuno indire la votazione online prima dell’incarico, ma visto che di tempo non ce n’era, farlo dopo è stato meglio che non farlo. Perché qualunque fosse stato l’esito del voto, la democrazia non sarebbe stata violentata. Per due motivi. Il primo è che Conte non aveva ancora accettato l’incarico. Era solo un presidente incaricato. E più volte nella storia del nostro Paese è successo che chi si trovava in quella posizione alla fine rinunciasse: perché non si trovava l’accordo sui ministri; sul programma o perché gli organi di un partito alla fine dicevano no. È accaduto, ad esempio, nel 1953 con Attilio Piccioni quando all’ultimo momento i socialdemocratici decisero di votargli contro. Il secondo motivo è invece scritto nell’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Chi vuole incidere sulle scelte e non limitarsi a votare ogni 5 anni, può insomma entrare in una formazione politica. Cosa che purtroppo fanno ormai in pochi. Anche perché tutti sanno, che in barba alla Carta, i partiti di solito sono molto poco democratici. Per questo la vera battaglia dovrebbe essere quella per avere finalmente una legge che regoli la vita interna dei partiti (e dei sindacati). Non quella contro il voto di chi ancora si iscrive

RQuotidiano | 6 SETTEMBRE 2019
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Gentile redazione, ho letto con un certo sgomento la lettera che Marina Berlusconi ha scritto al Corriere all’indomani delle “verità” emerse sulla morte di Imane Fadil: non soltanto – come era immaginabile – una strenua difesa del padre Silvio (“Il processo Ruby: storia più attenta alle morbosità da voyeur che alla realtà giudiziaria”, sic), ma soprattutto un attacco ai “metodi da sciacalli” utilizzati dai giornalisti che avrebbero cercato con “allusioni” un “sospettato” al quale attribuire una “responsabilità morale”. Su queste pagine non ho mai letto “allusioni”: solo una costante ricerca della verità, così come si addice ai veri cronisti.
Antonella Mezzimbeni

Gentile Antonella, i familiari di Imane, che su questo giornale abbiamo intervistato, ci consegnarono – erano passati solo pochi giorni dalla notizia del decesso della ragazza – parole molto chiare: “Sappiamo solo che Imane è entrata viva in ospedale ed è uscita morta un mese dopo. Nessuno può ridarcela indietro. Vogliamo la verità”. La Procura di Milano ha indagato per mesi. Ha indagato a tutto campo, dopo aver aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio volontario. E lo ha fatto non escludendo da principio alcuna pista: la morte naturale per una malattia fulminante (ora definita pare, grazie anche al lavoro del pool guidato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, in aplasia midollare), avvelenamento inconsapevole, avvelenamento doloso. Noi, come giornalisti, abbiamo fatto il nostro mestiere: mantenendo una “luce accesa” sulle indagini, come promesso ai familiari, e cercando di cogliere la storia nel suo divenire. I punti controversi, durante questi mesi, sono stati – e potrebbero restare – tanti: gli esami del sangue (prelievo del 27 febbraio, esiti consegnati solo il 6 marzo, a decesso avvenuto) che segnalavano la presenza di metalli pesanti in concentrazioni superiori alla media, anche se non letali; le tracce di raggi alfa rilevate nelle urine di Imane; la paura ossessiva della ragazza di essere stata avvelenata… Del resto, anche gli stessi giornali di casa, e quelli vicini a casa, titolavano in prima pagina “Mix di sostanze radioattive: Imane è stata avvelenata” (Il Giornale) o “Avvelenata la teste chiave del processo a Silvio” (Libero). “Ancora non sappiamo perché e come sia successo”, ripetono oggi i familiari di Imane. Attendono la relazione autoptica conclusiva, per poter avere tutte le risposte che da mesi aspettano. E noi siamo al loro fianco, esattamente come sei mesi fa. Proprio perché, sciacalli, non siamo.
Maddalena Oliva

di Antonio Padellaro | 6 SETTEMBRE 2019
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È sbagliato tutto ciò che rafforza Matteo Salvini, è giusto tutto ciò che lo indebolisce. Potrebbe essere un buon criterio per valutare le future mosse del governo (che abbiamo chiamato dei Malavoglia per ragioni intuibili) non trovandone di più convincenti. Il ricorso a Salvini come unità di misura si è infatti reso necessario stante l’assoluta difformità di giudizio che questo diario ha riscontrato nella lettura dei giornali, fonte come è noto di imparzialità e saggezza.

Per esempio, Roberto Gualtieri all’Economia è “il dem esperto d’Europa” (Corriere della Sera), oppure “il comunista che ci ha ammanettato col fiscal compact” (La Verità)? E Vincenzo Spadafora allo Sport è “l’uomo che sfidò il sessismo leghista” (Repubblica), oppure “il balduccino che amava il capo della cricca” (La Verità)? Per non dire di Roberto Speranza: è “un nome giusto per la Sanità” (Repubblica), oppure “fa ribrezzo come tutto lo zoo di Conte” (Libero)? Perciò, in preda a totale smarrimento (e a tristi riflessioni sulla credibilità della stampa italiana) abbiamo allora pensato al Capitan Fracassa disarmato come a una bussola a cui attenerci, e per diversi motivi. Un senso di umanità, innanzitutto, da parte di chi come noi è sempre stato dalla parte dei perdenti. Dopo tante smargiassate vederlo andare per funghi e ammettere con le orecchie basse: “In questo momento perdo uno a zero”, ci conferma nell’idea che egli in fondo non è poi così cattivo, ma che sono i suoi elettori a volerlo con la bava alla bocca. Poi, con un superministro che un giorno d’agosto decise di mandare a puttane il governo dove spadroneggiava, di costringere alla disoccupazione una pletora di fedeli ministri e sottosegretari, e di spararsi sui piedi (e forse un tantinello più su) no, non è giusto infierire.

Attenzione, però, che pur malconcio, il nostro resta pur sempre il capo di un partito che prima del fattaccio veleggiava verso il 38-40%. Concordiamo perciò con chi sostiene (Ilvo Diamanti) che una fase di opposizione potrebbe rigenerare Salvini, non più appeso ai vincoli europei e di bilancio (oltre che all’obbligo di farsi vedere ogni tanto al Viminale). Ma potrebbe anche sgonfiarlo del tutto una volta allontanato dal potere.

C’è un’incognita: che gli eventuali errori del Conte Due gli riaprano l’autostrada della rivincita verso Palazzo Chigi. Una prospettiva che temiamo fortemente, non certo perché consideriamo l’uomo del mojito il male assoluto ma semplicemente perché lo riteniamo inadatto a governare persino una spiaggia.

Perciò c’interroghiamo preoccupati su alcune inevitabili scadenze. Che succederà di diverso dal recente passato quando la prossima nave dei disperati chiederà di attraccare a Lampedusa? E quando si riproporrà la ripresa dei lavori sul Tav Torino-Lione in forza della decisione adottata dal Conte Uno, come si comporteranno i grillini di lotta e di governo ? E dove si troveranno i tanti denari che mancano ai nostri conti sgarrupati? E il dossier Autostrade? Ma soprattutto, quali sono le reali intenzioni di Matteo Renzi? Per quanto tempo resisterà alla tentazione di minare le fondamenta del governo giallo-rosso ricoprendo di macerie Zingaretti e Di Maio? Mentre c’interroghiamo pensosi sui destini del Paese, un’immagine si fa ossessiva. Quella di un Salvini seduto sulla riva del fiume con un grosso contenitore di popcorn (o se preferite di Nutella). Che attende fiducioso

Carlassare, De Masi, Feltri, Gomez, Lillo e Montanari | 6 SETTEMBRE 2019
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Premio Di Padre in Figlio
Le aziende di famiglia hanno risultati migliori. È arrivato il momento di premiarle 
Sponsorizzato da Credit Suisse

Da dove deve partire il governo Conte 2? Abbiamo chiesto a sei tra nostre firme ed esperti quali siano le priorità del nuovo esecutivo in altrettante aree tematiche di competenza: Interni, Giustizia, Economia, rispetto della Carta e riforme costituzionali, Cultura e Lavoro. Per non perdere di vista le sfide mancate dal passato governo gialloverde e per correggerne al più presto gli errori.

Lorenza Carlassare
La Costituzione resti il faro e si ritorni al proporzionale

Un governo che non voglia mai perdere di vista la Costituzione dovrebbe quantomeno partire dal contrasto alle disuguaglianze. È la nostra Carta a dirci che nessuno deve essere lasciato indietro, motivo per cui sono favorevole a misure come il Reddito di cittadinanza. In secondo luogo, non si dimentichi di dare dignità alla cultura e all’istruzione: da sempre l’ignoranza è del popolo schiavo, la democrazia senza cultura non può esistere. Ma per rispettare a pieno la nostra Costituzione c’è bisogno anche di un ritorno a un sistema elettorale di tipo proporzionale, che sia garanzia di rappresentatività. Troppe volte in questi anni – e ricordiamo bene il tentativo di Matteo Renzi, che prevedeva addirittura un ballottaggio – si è tentato di privilegiare la governabilità, ma non può funzionare così. Il ritorno al proporzionale sarebbe anche il modo per dare senso al taglio dei parlamentari di cui tanto si parla: a me sta bene, purché non venga meno la rappresentatività, il legame tra i cittadini e i parlamentari.

Tomaso Montanari
Il Mibact parta dalle assunzioni. E basta Grandi Navi a Venezia

Primo: assunzioni. A tempo indeterminato. Per liberare le ultime generazioni di storici dell’arte, archeologi, archivisti, bibliotecari, ecc. dall’incubo della precarietà e insieme per salvare un patrimonio diffuso che ogni giorno muore per mancanza di personale e di fondi. Bonisoli aveva avviato l’iter per circa 4000 assunzioni: bisogna condurlo in porto, ma subito dopo ce ne vogliono almeno altrettante, e tutto è inutile se non si ottiene di far saltare il blocco del turnover per i Beni culturali. È questione di vita o di morte. Secondo: mettere fuori dalla Laguna di Venezia le Grandi Navi. Subito. Terzo: affidare la soprintendenza di Roma a un commissario che sia incorruttibile e competentissimo. Candidato naturale: l’ex direttore alle Belle Arti, Gino Famiglietti. Poi, certo, bisogna sostituire i direttori dei super-musei manifestamente non all’altezza (da Capodimonte a Brera, passando per molti altri…), puntando sulla produzione e diffusione di conoscenza e non sul botteghino. Ma significherebbe rovesciare una certa riforma Franceschini…

Domenico De Masi
Centri per l’impiego da rifare, puntando poi sul salario minimo

La prima cosa di cui dovrebbe occuparsi la nuova ministra del Lavoro è una seria ristrutturazione dei centri per l’impiego: dovrebbero essere come la rete stradale o ferroviaria, c’è bisogno di interventi capillari. Altrettanto decisiva sarebbe una riforma sull’orario di lavoro: noi lavoriamo 1800 ore di media all’anno, in Germania 1400. Noi abbiamo il 10 per cento di disoccupazione, loro il 3,8. Un rimedio a questo scarto è proprio la riduzione delle ore di lavoro. E poi c’è il tema del Reddito di cittadinanza. Il Pd deve rendersi conto che non è altro che un Reddito di inclusione fatto meglio e allargato. Dunque si deve cercare di perfezionarlo e di arrivare a più persone. Infine, esigenza fondamentale è quella del salario minimo, che non si può rimandare. Capisco che i sindacati vogliano inserire i salari all’interno delle contrattazioni, ma se in certi settori la contrattazione non esiste, i lavoratori vanno tutelati con un salario minimo. Se poi un giorno arriverà la contrattazione, tanto meglio.

Peter Gomez
Ricucire con Tunisi sui migranti. Poi una legge sui beni confiscati

La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, dovrà far rispettare le regole. A tutti. Indipendentemente dal colore della pelle. Anche perché il dibattito propagandistico sui decreti Sicurezza, da modificare nelle parti indicate dal Quirinale, ha sviato dal nocciolo della questione: le norme per regolamentare l’immigrazione e garantire l’integrazione in Italia già c’erano. Ma per anni sono state disapplicate come dimostrano i tanti scandali nella gestione dei richiedenti asilo. Due poi gli interventi da affrontare subito. Il primo: ristabilire buoni rapporti con la Tunisia. Perché dopo gli attacchi di Matteo Salvini (“esporta galeotti”) Tunisi ha quasi rinunciato al contrasto delle partenze da quelle coste (i cosiddetti sbarchi fantasma). Il secondo: rivedere le nuove norme su

Marco Lillo
Sulla giustizia intenzioni vaghe: la riforma Bonafede va cambiata

La prima cosa da fare è potenziare l’uso dell’informatica. Il deposito degli atti per via telematica, previsto dalla riforma Bonafede, è un passo avanti. Poi, ora che Salvini non c’è più, sarà bene mantenere l’entrata in vigore della riforma della prescrizione nel 2020 per togliere agli avvocati e imputati un incentivo a tirarla per le lunghe. Il programma M5S-Pd indica solo gli obiettivi (riduzione dei tempi della giustizia e riforma dell’elezione del Csm) ma è vaga sui mezzi. Il pacchetto di riforme approvato (‘salvo intese’) dal precedente governo dovrà essere migliorato: il potere dei procuratori capi (nominati spesso con criteri “correntizi”) di stabilire i reati da inquisire con priorità disegna una giustizia più discrezionale e verticizzata, con il rischio di una minore autonomia del singolo pm. Anche la doppia tagliola prevista dalla riforma per le indagini troppo lunghe (possibile procedimento disciplinare contro il pm e pubblicità degli atti di indagine) è rozza. Rischia di punire i più scrupolosi e di bruciare le inchieste. I beni confiscati alle mafie. Si tratta di un patrimonio valutato in 30 miliardi, che Salvini voleva vendere. Farlo, però, è complicato: sia perché i boss spesso tentano di riacquistarli, sia perché i beni gestiti male poi perdono valore. Una parte almeno va riqualificata e data alla collettività.

Stefano Feltri
Dalla lotta all’evasione si capirà se c’è differenza con i gialloverdi

Il governo ha il problema immediato della lmanovra, ma ha anche l’esigenza di approvare riforme per non trovarsi in emergenza tra un anno. La priorità sono le clausole di salvaguardia sull’Iva: dove trovare 23,7 miliardi dal 2020 senza fare troppo deficit? Un primo passo sarebbe rimettere in discussione misure la cui scarsa utilità è ormai chiara: Quota 100, la flat tax per le partite Iva, gli 80 euro renziani. Bisogna dirsi la verità: servono più entrate, che non significa necessariamente più tasse per chi già le paga. Ci sono tasse da alzare (l’imposta di successione porta solo 800 milioni l’anno, l’abolizione dell’Imu prima casa è un errore da almeno 4 miliardi l’anno) prima di abbassarne altre. Nel 2015 il governo Renzi ha reso quasi impossibile mandare gli evasori a processo, perché la soglia di punibilità dei reati fiscali è troppo alta. I 5 Stelle hanno promesso di abbassarle (“manette agli evasori”), ma la Lega si opponeva. Se la coalizione col Pd è diversa si vedrà subito da questo dossier