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sabato 10 settembre 2011

DA LAVITOLA IN GIU'

Che il Cavaliere dimezzato viva e ragioni soltanto da Lavitola in giù, era noto. L’ha detto lui stesso in una delle ultime telefonate intercettate, tracciando il bilancio sintetico ma completo dei suoi primi 17 anni da statista: “Di me possono dire solo che scopo” (“utilizzo”, direbbe l’on. avv. Ghedini). Mai fu pronunciata verità più vera: che altro ha combinato, dal ‘94 a oggi, a parte quella cosa lì? Nada de nada, se si eccettuano – si capisce – le telefonate fatte prima di utilizzare, per scegliere la mercanzia dal catalogo dei Tarantini, Mora, Fede; e quelle fatte dopo aver utilizzato, per coprire il tutto a suon di bigliettoni. Un po’ come i gatti, che prima la fanno e poi la coprono. Solo che i gatti, poi, fanno anche altro. Lui invece fa solo quello: un intero Paese appeso al pisello presidenziale e alle sue mirabolanti avventure e disavventure: tutto – Consigli dei ministri e dibattiti parlamentari, ribaltoni e rimpasti, questioni di fiducia e mozioni di sfiducia, riforme costituzionali e leggi ordinarie, polemiche fra politici e politologi, consulenze Eni e Finmeccanica, casting nel cinema e in tv, indagini e processi, nomine ed epurazioni in Rai, Mediaset, La7, Mondadori – ruota attorno alle peripezie di quel coso lì e alle sue svariate utilizzazioni. Le 1732 telefonate intercettate in 6 mesi con Ruby e le altre Papi Girl, svelate l’altro giorno dal sempre astuto on. avv. Ghedini, corrispondono a una media di 10 al giorno, una ogni due ore (lui dorme poco). Poi ci sono tutte quelle non intercettate: ché i giudici, per quanto s’impegnino, non possono conoscere tutte le mignotte in attività sul suolo patrio e nei paesi comunitari ed extra (ne è appena saltata fuori una che lo ricatta dal Montenegro). E che altro doveva consigliare B. a Lavitola che da Sofia (sempre bulgaro è l’editto) domandava: “Che faccio? Torno e chiarisco tutto ai pm?”. Alle parole “chiarire” e soprattutto “pm”, B. ha innestato il pilota automatico: per carità, “resta dove sei” (sottinteso: prima o poi ti raggiungo). Tanto la latitanza, specie dei socialisti, si chiama “esilio”, no? Chissà perché Ghedini si agita tanto per dimostrare contemporaneamente che “la notizia è infondata e assurda” e che “la conversazione è privata e irrilevante: B. non aveva alcun motivo di sconsigliare a Lavitola di tornare in Italia”. Grande è la confusione sotto il coso: se la notizia è infondata, vuol dire che la conversazione non esiste; invece lo stesso Ghedini ammette che esiste, pur definendola privata e irrilevante. Molto meglio, o meno peggio, il commento di B., in linea con lo scajoliano “a mia insaputa” (“non ricordo quelle mie parole”: la memoria ha sede nella parte superflua del corpo, da Lavitola in su). E persino quello di Tibia Sallusti: “Anche se fosse vero, il suggerimento non farebbe una piega: Lavitola non finirebbe davanti a magistrati sereni e imparziali, ma a gente che ha già scritto la sentenza a prescindere dai fatti e dalle regole”. Lo dice pure Cesare Battisti. Ora in Parlamento gira voce di una nuova telefonata in cui B. definisce la cancelliera Merkel “culona inchiavabile”. Noi non vogliamo crederci neppure per scherzo, ma se la voce gira è perché è credibile, se non probabile. Del resto, cosa resta di incredibile o di improbabile a proposito di B.? Se, come dice lui, “di me possono dire solo che scopo”, è naturale che divida l’umanità tra esseri chiavabili e non. E comunque la posizione dell’Italia non migliorerebbe se, per rimediare, dicesse che la Merkel è un “culetto chiavabile”. Certo, se fosse tutto vero, non vorremmo essere i titolisti del Pompiere. Dopo l’immortale “cauto sollievo del Colle”, ne han fatta un’altra: sull’istigazione alla latitanza di Lavitola, hanno titolato “Premier al telefono, un caso”. Un caso? Nel senso di casualità? Improbabile: quello al telefono ci passa la vita, anzi Lavitola. E allora dev’esserci stato un refuso. Forse volevano scrivere “caos” o “casino”? Impossibile: vocaboli troppo allarmistici, quasi terroristici. Non resta che un’alternativa: “Premier al telefono, un coso”. Ecco.

giovedì 8 settembre 2011

Cauto disappunto

Più passano i giorni e più cresce in noi la… Più passano i giorni e più cresce in noi la solidarietà con Giorgio Napolitano che, oltre al suo mestiere di presidente della Repubblica, deve fare pure il presidente del Consiglio al posto di quel pover’ometto che non ci sta più con la testa, nel senso che la tiene perennemente infilata fra le cosce di questa o quella e, nelle pause, è troppo impegnato a trovare il modo di nascondere quel che ha appena fatto o sta per rifare. L’altra sera, dopo un’intera giornata passata a leggere i bollettini dell’ennesima Caporetto in Borsa e a parlare con Draghi, Trichet e Merkel (che, non essendo mignotte, non trovano udienza a Palazzo Grazioli), il capo dello Stato ha diramato il “monito” numero 1834 in cui invitava i buffoni a riscrivere per la quinta volta la buffonata per renderla “più credibile”. Un modo carino per dire che la quarta versione era una barzelletta. L’ometto, che mancava da Roma da 23 giorni (giusto: che ci va a fare un premier nella Capitale nei giorni della crisi finanziaria più grave della storia?), s’è dovuto precipitare in loco per farsi dettare le modifiche “credibili”, hai visto mai che il nonnetto s’incazzasse davvero. Poi, visto che Al Fano, Frattini Dry e Schifani avevano categoricamente escluso la fiducia, ha posto la fiducia. A quel punto sono entrati in scena i quirinalisti, ai quali va una doppia solidarietà. Sono, costoro, dei moderni aruspici costretti ogni giorno a indovinare gli umori del Presidente (che essi chiamano rispettosamente “il Colle” per non nominarlo invano), ma a debita distanza, fuori dalla porta, senza potergli dare neppure una guardatina. L’altroieri dovevano riferire se “il Colle” fosse contento (e, se sì, quanto) della quinta buffonata. Come sempre, hanno interpellato i consiglieri del Presidente (ossequiosamente definiti “fonti del Quirinale”, manco le avesse scolpite il Bernini). I quali, per agevolarli, hanno diffuso la consueta “nota” informale e anonima, versione moderna degli antichi riti da cui Tiresia e i suoi emuli traevano i loro vaticinii, rovistando fra le interiora degli animali o, in tempi più recenti, compulsando i fondi di caffè. Accade però, talvolta, che il capo dello Stato non voglia far sapere se è contento o meno, o che i suoi consiglieri si facciano l’idea che lo sia mentre non lo è, oppure che i quirinalisti interpretino la nota nel senso che lo è mentre non lo è. Anche perché la nota somiglia all’oracolo della Sibilla: “Ibis… redibis… non… morieris… in bello” e vai a sapere se quel “non” si riferisce a “redibis” o a “morieris”. Dev’essere accaduto qualcosa del genere, l’altroieri. Il quirinalista di Libero descriveva la “soddisfazione del regista Napolitano”. Così pure quello del Giornale: “Il Colle fa sponda al governo. Il sollievo di Napolitano”. E, sorpresa, quello di Repubblica: “Napolitano osserva con una certa soddisfazione il prodotto del suo pressing”. Quelli della Stampa, al contrario, dipingevano un “Napolitano rammaricato per la fiducia sul testo”, non senza “la consapevolezza e la soddisfazione”, senza dimenticare un “malcelato disappunto” e “una certa circospezione”. Il Corriere invece riusciva a trovare il giusto mezzo fra soddisfazione e rammarico: “Il cauto sollievo del Quirinale”. Pare di vederlo, il Presidente, che si sveglia di buon mattino, riceve i consiglieri in pigiama e berretta da notte e, mentre intinge il bombolone nel caffelatte, lascia trasparire un’aria improntata alla cautela, velata però da un fremito di sollievo. I consiglieri, sottovoce, confabulano: “Oggi il capo mi pare soddisfatto e consapevole”. “A me sollevato e circospetto”. “Macché, ha la tipica faccia del malcelato rammarico”. “No, direi piuttosto cauto”. “A me sembra invece cautamente sollevato”. “Ma va là, non vedi che è disappuntamente rammaricato?”. A quel punto si rende necessario interrogare il fondo di caffelatte rimasto nella tazza. Segue, inappellabile, il responso: “Cauto sollievo”. E anche stavolta è andata.

martedì 6 settembre 2011

Fine vitola

Incredibile: le Borse continuano a non fidarsi…

Incredibile: le Borse continuano a non fidarsi dell’Italia. E dire che domenica, per rassicurare i mercati, si erano paracadutate su Cernobbio le migliori macchiette del governo. L’ideale, si capisce, era spedirvi direttamente B., che quando c’è da fare bella figura non si tira mai indietro. Ma era impegnatissimo a pagare la mesata al consueto plotone di mignotte, papponi, servi, ricottari e sicofanti sempre in fila a Palazzo Grazioli, manco fosse la mensa della Caritas. Così, a rappresentare degnamente il capocomico, c’erano le spalle: Alfano, Brunetta, Frattini, Gelmini, Maroni, Romani, Tremonti. Mancavano purtroppo Lavitola, Mora e Tarantini, causa legittimo impedimento. Si era anche pensato di chiedere per loro una libera uscita speciale nell’ora d’aria, ma le autorità carcerarie l’avrebbero negata per via dell’ambiente troppo inquinato a Cernobbio. Le cronache registrano reazioni di “gelo”, “imbarazzo”, “incredulità”. “Siamo tutti basiti”, commenta con La Stampa un noto professionista, definendo “surrealismo puro” e “voli pindarici” gl’interventi ministeriali. Al Fano illustra così l’ottantacinquesima versione della manovra: “La perfezione appartiene agli dei”, poi giura: “Niente fiducia al Senato” (infatti la fiducia ci sarà). Frattini Dry, noto anestesista, tiene una prolusione che un imprenditore paragona al “borotalco”, garantendo che “la Bce continuerà a comprare i nostri Btp”, subito smentito da Draghi. La Gelmini, oltre a snocciolare i suoi successi in ambito scolastico (anche quest’anno, nonostante lei, pare che le scuole riapriranno), sfoggia la nuova acconciatura liberamente ispirata a Marzullo. Maroni, convinto di essere a Vieni via con me, legge la solita lista di latitanti arrestati: se la porta sempre dietro, anche al ristorante, per la gioia dei camerieri. Brunetta la prende un po’ alla lontana, maledicendo i famigerati “anni ‘70” per il debito pubblico (esploso negli ‘80, quando lui era consulente del Psi) e il governo Prodi per le “35 ore” (mai entrate in vigore: forse le confonde con i 35 centimetri). Poi esterna un suo rovello: “Come mai, con un governo di persone così straordinarie, c’è malessere? Perché nei media e nell’opinione pubblica prevale lo scoramento, con tutto quel che abbiamo fatto?”. Per rispondergli degnamente, qualcuno in sala compone il numero del 118. Ma lui intanto si risponde da solo, con la consueta originalità: colpa della sinistra, dunque niente larghe intese. Al massimo alte, potendo. Tremonti rifila agli astanti il replay del discorso letto al Meeting di Rimini, ma l’uditorio è identico e lo sgama subito: un frullato di citazioni da Hamilton, Voltaire, Churchill, Cavour, Giolitti e Fellini, tanto sono tutti morti. Di nuovo, aggiunge che abolendo le festività civili, nella fretta, gli erano scappati il 25 aprile e il 1° maggio. Capita. Quando si pensa di aver sentito tutto, parla il cosiddetto ministro Romani e strappa la vittoria ai punti: “Abbiamo fatto una manovra straordinaria, da 131 miliardi in poche settimane”. In sala c’è chi si dà i pizzicotti, chi verifica col vicino di aver sentito bene, chi impugna la calcolatrice per capire come diavolo venga fuori la cifra di 131 miliardi mai sentita prima. Poi qualcuno, un noto psichiatra, capisce: Romani ha sommato gli importi delle varie versioni della stessa manovra. Come se uno entrasse dal fruttivendolo dicendo “vorrei 3 mele, anzi facciamo 5, ma no – mi voglio rovinare – ne prendo 10” e il negoziante gliene desse 18. Non a caso il Romani è ministro dello Sviluppo economico. L’hanno preso apposta: sviluppa. Un altro illustre ospite commenta: “Avevamo pensato di alzarci e andare via”. Ma poi rimangono tutti. Anche perché sono 17 anni che le solite macchiette vanno lì a sparare cazzate e finora non s’era mai alzato nessuno. A Cernobbio c’era pure il banchiere Passera, che tre anni fa ci rifilò la patacca Alitalia al modico costo di 4 miliardi e ora pontifica di “competitività, concorrenza, efficienza del sistema Paese”. Più che un banchiere, un ossimoro.