Politica Informazione Legalità Banche Centrali

giovedì 29 agosto 2019


ApprofondimentoGoverno Conte
Idea del premier: nessun vice. Zingaretti per la svolta vuole Interno ed Economia

28 AGOSTO 2019
Oggi il premier riceverà da Mattarella l'incarico di formare il governo, poi squadra e programma. Il giuramento entro 7 giorni. E Di Maio conferma: "La Lega mi ha offerto la presidenza del Consiglio"
DI TOMMASO CIRIACO
4 / 5

COMMENTA

CONDIVIDI

La minaccia di Luigi Di Maio arriva a sera, dopo l'incredibile post con cui Beppe Grillo lo "estromette" dall'esecutivo. Il capo del Movimento telefona al comico. È sconcertato. Gli ripete quel che ha già detto a Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti, per spezzare l'assedio. "Non mi volete come vicepremier? Resto fuori e mi comporto di conseguenza".
Soffre, il capo 5S. Contestato dai suoi, frenato dal Pd, limitato nei movimenti dalla tela di Conte. E dal fondatore del Movimento. In effetti, applicando la "dottrina Grillo" verrebbe escluso con i suoi fedelissimi Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, finora considerati blindati. E il leader non può permetterselo. La verità è che, comunque vada, Palazzo Chigi è già orientato a tenere lontano Di Maio dalla casella di vicepremier, dirottandolo alla Difesa o agli Esteri. Nel primo caso deve superare alcune resistenze dei vertici militari, nel secondo il vaglio del Colle.
L'incastro di governo, comunque, passa inevitabilmente da Conte, che ha costruito la nuova alleanza con il Pd e ridotto l'influenza del capo 5S. È l'avvocato a trattare direttamente in queste ore con Zingaretti. "Voglio scegliere io il mio sottosegretario alla Presidenza", ha fatto sapere ieri. A Di Maio ha ribadito lo schema per superare lo stallo sui vice: "O due, o nessuno". In realtà, nel Pd giurano che le strade promesse dall'avvocato sono due: un vicepremier unico dem oppure nessun vice. Il "pacchetto" che va per la maggiore è quello che promuove i due principali artefici del patto giallo-rosso: Dario Franceschini vicepremier e il 5S Vincenzo Spadafora sottosegretario alla Presidenza. La seconda strada cancella i vice - per la gioia di Conte - e prevede il sottosegretario ai dem. Andrea Orlando, probabilmente. Ma non è finita qui. Perché in queste ore Movimento e Pd sono al lavoro per selezionare profili graditi al Colle per i ministeri chiave: Economia, Interni, Esteri e Difesa.
Si parte dal Viminale, dove è ancora fresco il ricordo delle feste al Papeete. I due nomi vagliati in queste ore dal Nazareno sono quelli di Marco Minniti e Lorenzo Guerini. Il primo gode di un ottimo rapporto con il Colle, conosce a perfezione la macchina e sarebbe in grado di rispondere agli attacchi quotidiani che arriveranno da Salvini. Il secondo ha chance nel caso in cui si decida di optare per un profilo meno noto e più gradito ai 5S. L'alternativa, per Guerini, è quella perfetta per la sua storia di amministratore: gli Affari regionali.
E poi c'è l'Economia. I renziani si spendono per Roberto Gualtieri, che libererebbe tra l'altro un posto a un altro renziano all'Europarlamento. Ma Zingaretti potrebbe mettersi di traverso. Difficile però che autorizzi la riconferma di Giovanni Tria. Di certo, l'attuale ministro ha un ottimo rapporto con Paolo Gentiloni. L'ha sentito al telefono e potrebbero lavorare insieme se l'ex premier dovesse entrare nella Commissione Ue, a meno che non scelga di ritornare alla guida della Farnesina.
Poi c'è il capitolo donne, a cui Zingaretti intende riservare una quota significativa degli otto ministeri che spettano al Pd (cinque alla maggioranza interna, tre alle minoranze). La corrente di Martina punta su Tommaso Nannicini al Lavoro, mentre quella renziana potrebbe spingere su Anna Ascani o Ettore Rosato. Lia Quartapelle spera nelle Politiche europee. In corsa anche Marina Sereni e Paola De Micheli, per l'Istruzione o la Sanità: la 5S Giulia Grillo, infatti, potrebbe mollare. "Sono stanca", ha detto in assemblea.
Infine una variabile. Quella che nota il renziano Tommaso Cerno: "Un governo senza poltici? Grillo va nella direzione giusta". Ecco, Zingaretti per ora non si espone. Ma c'è chi giura che potrebbe sparigliare. Chiedere un passo indietro a chi è già stato ministro. E dire: "Ve l'avevo detto, è il governo della discontinuità".

ApprofondimentoCrisi Di Governo
“Discontinuità”. “Non rinnego”: i discorsi opposti dei due leader

28 AGOSTO 2019
Zingaretti: "Abbiamo confermato a Mattarella l’esigenza di costruire un governo di svolta e discontinuità". Di Maio: "Non rinnego il lavoro degli ultimi 14 mesi Il nostro programma è lo stesso, quello votato da 11 milionidi italiani"
DI GOFFREDO DE MARCHIS
4 / 5

COMMENTA

CONDIVIDI

Gemelli molto diversi. Un murale con Di Maio e Zingaretti che si baciano in bocca, come quello apparso in una strada di Roma a immortalare l'intesa gialloverde con Salvini, è difficile da immaginare. Infatti nessun writer lo ha ancora disegnato. Siamo alla fase delle "convergenze parallele". Diverso il linguaggio, la visione, i valori. "Noi siamo post ideologici. Non esistono la destra e la sinistra", ripete Luigi Di Maio uscendo dal colloquio con il capo dello Stato. "Noi siamo forti di un'identità, di una storia da far valere nella costruzione di un'alleanza", sottolinea invece Nicola Zingaretti. L'indistinto grillino però, nel corso degli anni, si è mangiato milioni di voti provenienti proprio dal Pd.
Anche non essere è un'identità. Favorisce ad esempio la voglia di governare con la Lega e subito dopo con i dem. Senza fare una piega. Di Maio è come al solito impeccabile nel suo completo blu, abbronzato, comunicatore efficace. Nel pomeriggio, dallo stesso microfono del Quirinale, Zingaretti dice: "Non c'è nessuna staffetta, non esiste un testimone da raccogliere. Siamo qui per dare al Paese un governo di svolta e di discontinuità". Su questo punto non si sono capiti, evidentemente. "Non rinnego il lavoro fatto in questi 14 mesi. Abbiamo varato dei provvedimenti storici", è la linea serale del vicepremier uscente e, nei suoi desideri, rientrante. Cosa non rinnega Di Maio? "Quota 100 e il reddito di cittadinanza. Le nuove politiche sull'immigrazione grazie alle quali ci siamo guadagnati il rispetto ai tavoli europei ed internazionali". Beh, il segretario del Pd la pensa all'opposto perché, nel discorso alla direzione del partito, osserva: "Serve una svolta nell'organizzazione e gestione dei flussi migratori". Quindi non i porti chiusi, non la sfida quotidiana alle Ong, non la guerra ai "taxi del mare" che furono definiti così mica da Salvini ma dal capo politico del Movimento 5 stelle.
Può funzionare una maggioranza con due partiti in cui uno si mette in discussione, coltiva la virtù del dubbio, lo ammette persino come ha fatto ieri Zingaretti davanti ai suoi parlamentari, e chi, al contrario, non rinnega e rilancia? "L'obiettivo - dice Di Maio - rimane quello di realizzare il nostro programma, sempre lo stesso del 4 marzo, votato da 11 milioni di cittadini". Contorcendosi, tormentadosi, onestamente ammettendo le difficoltà, Zingaretti confessa invece che l'abbraccio di oggi è figlio "del senso di responsabilità", del mettersi alla prova. E non cerca abiure. Anzi. Chiedendo ai 5 stelle di cambiare, spiega che i primi a cambiare devono essere i dem.
Alle certezze di quella macchina robotica che è Di Maio, al Movimento delle espulsioni, della purezza e dell'onestà, il Pd oppone la consapevolezza. "Non sarà una passeggiata di piacere. Ma ai nostri interlocutori domandiamo un programma nuovo e di dare prova della stessa nostra volontà e coerenza", insiste il governatore del Lazio.
Zingaretti demolisce la formula del "Contratto". Di Maio invece non fa mai marcia indietro. "Non abbiamo imboccato la strada più facile", osserva il segretario dem. Già. L'altro pronuncia finalmente, dopo giorni, la sigla magica: "Accordo politico con il Partito democratico". Come una concessione en passant.
Diversi in tutto. Per dire: Di Maio sta facendo il diavolo a quattro per rimanere vicepremier e anche ministro e anche leader del M5s. Ieri si è quasi autoconfermato dicendo: "Degli incarichi parleranno Conte e Di Maio. Prima i programmi". Zingaretti no. Sta resistendo al pressing di mezzo partito. Vuole rimanere fuori dal governo. Segretario e presidente della Regione Lazio: bastano come poltrone. "Ci sono dei cittadini che mi hanno votato, li voglio rispettare. Il discorso sarebbe cambiato solo se ci fossero state le elezioni anticipate". Goffredo Bettini, dalla Thailandia, ci discute, lo invita a fare il grande passo avanti. L'altro, il nuovo alleato, non ci pensa proprio al passo indietro.
Con il voto sulla piattaforma Rousseau Di Maio cerca il consenso virtuale, la democrazia diretta che è fredda come un clic mentre Zingaretti, ieri, esprimendo tormento e non granitiche certezze, si è preso la standing ovation in carne e ossa di decine di dirigenti e parlamentari. L'emozione di un applauso, il calore di un riconoscimento collettivo, seppure di ottimati. Almeno un punto a favore del Pd. Zingaretti suda e si asciuga la fronte con un fazzoletto. Di Maio non suda praticamente mai, almeno davanti alle telecamere. Come un robot appunto. Eppure saranno loro i protagonisti della nuova alleanza, quelli che dovranno sbrogliare i problemi e trovare le soluzioni. Forse non si baceranno in bocca, ma la coppia di prima è finita male

EditorialeGoverno
Il partner riluttante

28 AGOSTO 2019
DI EZIO MAURO
4 / 5

1 COMMENTO

CONDIVIDI

La forza delle cose ha preso la guida della crisi, ha sopravanzato i veti e le pretese, ha ignorato i dubbi e le resistenze, incanalando le consultazioni del Quirinale verso un governo formato dal Movimento Cinque Stelle e dal Partito democratico. Ci sono ancora le trappole, eccome, gli intoppi e le incognite dell'ultima ora, come avviene sempre quando si esce dal sistema maggioritario secco e a ogni crisi bisogna mettere in piedi una coalizione. Ma sia Di Maio che Zingaretti ieri hanno portato ufficialmente al presidente Mattarella un accordo politico che farà salire insieme al governo due forze fino a ieri concorrenti, anzi antagoniste, addirittura nemiche.
Questa precarietà dell'intesa - senza tradizioni condivise, riferimenti culturali simili, valori comuni, pratiche politiche omogenee e affini - fa sì che la crisi finisca con un governo, ma senza vincitori. Sul campo resta solitario ed evidente soltanto lo sconfitto, Matteo Salvini.
Voleva tutto il potere su di sé quando ha aperto la crisi senza far bene i conti coi meccanismi della democrazia parlamentare, non accontentandosi del potere legittimo e costituzionale. Oggi inevitabilmente si scarica su di lui tutto il peso della disfatta, perché con un colpo di testa ha portato la Lega a perdere la vicepresidenza del Consiglio, sette ministeri, il Viminale e il commissario europeo, isolandola dopo aver smarrito il filo di qualsiasi possibile alleanza: passando in dieci giorni dal ruolo di uomo forte che si sentiva l'Italia in mano a mendicante politico, che dopo aver implorato Di Maio di ritornare a casa dovrà presentarsi col cappello in mano ad Arcore da Berlusconi.
Lo sfondamento istituzionale tentato da Salvini, sfiorando il tabù dell'autoritarismo bonapartista, è certo una delle circostanze che hanno determinato non soltanto l'inizio della crisi - come pensa il leader della Lega - ma in realtà il suo esito. In pratica, il ministro dell'Interno ha alzato l'asticella delle elezioni che pretendeva dal Quirinale, fissando una posta di democrazia e di eccezione costituzionale, che ha trovato un'immediata reazione contraria, coalizzando interessi diversi e obiettivi distinti. Naturalmente non è il caso di parlare di fascismo, vista anche la sproporzione tra il termine e i personaggi: basta chiamare con il nome giusto i fenomeni a cui stiamo assistendo, le pulsioni razziste, le pratiche di governo feroci con i più deboli, l'intonazione xenofoba di ogni politica, la scelta antieuropea, le tentazioni putiniane, l'allontanamento dall'Occidente. Potremmo dire che con Salvini pretendente all'onnipotenza il sovranismo ha cercato di realizzare in Italia la separazione concreta tra democrazia e principi liberali, dando vita a un esperimento politico capace di concretizzare nel nostro Paese lo spirito dei tempi in cui viviamo.
Questo progetto di destra estrema richiede un contrasto forte e largo da parte di tutte le forze politiche responsabili: e avrebbe potuto essere la cornice culturale della nuova intesa tra M5S e Pd, partendo da un dato di fatto rilevante, e cioè il voto comune dei due partiti in Europa a favore di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue. Così l'accordo di governo avrebbe trovato un suo disegno politico, e non sarebbe nato soltanto dalle convenienze casuali e spicciole dei contraenti. Ma per avere un disegno bisogna saper disegnare. Invece è mancata proprio una drammaturgia della crisi, capace di costruire un percorso e un approdo, come ha indicato Scalfari.
E ieri, mentre Zingaretti (con la fatica che ogni volta è necessaria per costruire una posizione unitaria nel Pd) si è sforzato di dare una vernice culturale e di respiro alla nuova alleanza, parlando di "governo di svolta e discontinuità", Di Maio è sembrato un partner riluttante, che dà via libera all'intesa non guidando il suo partito, ma inseguendolo: con una evidente riserva mentale nostalgica della Lega. Ha voluto ribadire che Salvini gli aveva promesso la premiership se fosse tornato all'alleanza appena sciolta, ha aggiunto di aver rifiutato "con serenità e gratitudine", e soprattutto ha rivendicato "il lavoro fatto con la Lega in questi 14 mesi", indicando proprio nell'endorsement sovranista di Donald Trump a favore di Conte la conferma che "siamo sulla strada giusta".
Nessuno si aspettava un'abiura dall'ex vicepresidente del Consiglio, che in queste ore deve difendere se stesso e il suo ruolo in caduta libera dentro il partito e fuori. Ma la debolezza culturale con cui viene rivestito il governo di alleanza col Pd è stupefacente, una specie di profilassi minimalista, come se ci volessero i guanti per maneggiare questa intesa, una sorta di spoliazione di ogni significato, quasi che i grillini - spaventati dal peso postideologico della tradizione di sinistra - volessero trascinare l'accordo verso il punto zero in cui vivono e reinventano quotidianamente la storia del Paese: mentre invece il Pd ha un evidente bisogno di rivestire di significato un'intesa troppo repentina per stare in piedi da sola. Se il senso politico della nuova coalizione è il nulla, se l'orizzonte di governo è quello degli ultimi 14 mesi, se la "gratitudine" è tutta rivolta all'offerta disperata di Salvini (altro che uomo forte), se davvero come ha detto ieri Di Maio destra e sinistra non esistono più, allora perché i Cinquestelle si sono separati dal vecchio partner? Solo perché il leader leghista lo ha deciso, svelandoli incapaci di vita propria e di politica autonoma? E cosa significa il silenzio di Di Maio davanti alle critiche di Conte in parlamento a Salvini? Visto che per lui destra e sinistra non esistono, qual è il suo giudizio sulle politiche, i metodi, la cultura del ministro dell'Interno? Come le chiama?
Sono le questioni irrisolte che pesano - ben più della corsa alla vicepresidenza - davanti al Pd. Con chi si stanno alleando i democratici? E per fare che cosa? Questa ricerca di senso è il cuore della politica. Ci sono ragioni obiettive, d'emergenza, per dare un governo al Paese evitando un autunno complicato dal punto di vista economico, c'è una salvaguardia istituzionale da garantire, c'è una destra sovranista da arginare, c'è un rischio Quirinale dietro il prossimo angolo. La forza delle cose, appunto. Ma non si vede nient'altro, non si sa nemmeno come definire questo governo, al di là dei colori calcistici: è un'alleanza populista e riformista? O invece un test sulla mutazione della sinistra? O ancora uno stato di necessità tra destra e sinistra? Oppure semplicemente non può avere un nome perché non ha un carattere, un'anima e un'identità, per consentire ai Cinquestelle di mantenere indefinita - a somma zero - la loro natura?
Si risponderà banalmente che l'Italia ha bisogno di programmi concreti, di onestà e di buongoverno: tutto il resto è Novecento. Naturalmente, purché si sappia che queste sono precondizioni. Poi tocca alla politica, in qualunque secolo. Ma ogni scelta, anche la più tecnica e la più neutra, nasce da un'opzione culturale, si iscrive in un disegno generale, concorre a formare una visione del mondo. Ascoltando il riduttivismo politico di Di Maio, la deprivazione di senso per il nuovo governo, sembrava ieri che i grillini, usciti di casa dopo sette giorni di lutto per l'abbandono di Salvini, avessero incontrato per caso il Pd all'angolo di strada. Così non si va lontano. La forza delle cose, senza politica, è in realtà una debolezza

CommentoGoverno
Ma ora serve un colpo d’ala

28 AGOSTO 2019
DI STEFANO FOLLI
4 / 5

1 COMMENTO

CONDIVIDI

Ora che le carte sono sul tavolo, spetta al premier incaricato dare un senso all'accordo politico annunciato da Zingaretti e Di Maio. Non dovrebbe essere un compito astruso, quello che attende Giuseppe Conte, almeno per quanto riguarda le cose da fare. Infatti il programma economico lo fornirà l'Europa e i buoni rapporti con la futura Commissione von der Leyen potrebbero consentire qualche utile "bonus" al governo dell'Italia "desalvinizzata". L'arcigna austerità degli ultimi anni potrebbe cedere il passo a un'austerità selettiva e più flessibile, preziosa per pagare intanto le clausole di salvaguardia dell'Iva.
Già questo giustificherebbe metà delle ragioni che hanno spinto due forze agli antipodi - e in particolare il Pd - a mettere in piedi il Conte-bis ribaltato. Impresa rischiosa e carica di incognite.
Quanto al resto, non c'è davvero da attendersi granché: la ristrettezza dei tempi impedisce di approfondire i temi controversi e questo è un ottimo alibi per entrambi i soci della coalizione. Aspettiamoci un'alta marea di retorica, diffusa senza risparmio per coprire la povertà di idee e di soluzioni che il cosiddetto "programma condiviso" porterà con sé. Del resto, i veri impegni restano sullo sfondo, a cominciare dal taglio dei parlamentari che spingerà a scrivere una nuova legge elettorale in chiave proporzionale. E non sarà facile, nonostante la convergenza di interessi.
Molto più interessante è la questione dei ministri: chi va al posto di chi. Qui resta aperta la questione del vice-premierato a Di Maio, una sorta di assicurazione sulla vita per il giovane 5S che dice di non rinnegare nulla di quanto ha fatto nei quattordici mesi al governo con Salvini. Curioso modo di cominciare un'altra vita con un nuovo coniuge, il Pd. Che infatti stavolta non può accettare. Il nodo lo scioglierà Conte e non è escluso che il premier colga l'occasione per rinforzarsi ulteriormente proprio a scapito dei 5S, oltre che del Pd. In ogni caso, quel che conta è la possibilità di un colpo di scena o di un colpo d'ala tali da movimentare il quadro, così da mascherare la mediocrità in cui nuota il governo nascituro. Un'idea l'ha lanciata ieri sera Beppe Grillo: un ministero formato da personalità di primo piano della vita civile, lontane dal "poltronismo" che affligge anche i Cinque Stelle (osservazione quanto meno tardiva), lasciando ai sottosegretari di curare l'indirizzo politico della compagine. L'idea è tutt'altro che nuova, ma verrebbe presentata come inedita se si deciderà di adottarla. Il problema è che riesce difficile credere che il M5S di oggi - un misto di centrismo furbesco e di massimalismo demagogico - possa rinunciare a posti e poltrone ministeriali per obbedire al suo antico "guru".
Certo, se accadrà sarà un evento che può cambiare il giudizio sull'operazione debole e contraddittoria denominata Conte-bis. Ma è un po' strano che Di Maio, il piccolo capo disposto a fare le barricate per salvare - senza successo - il suo scranno di "vice", possa accettare il consiglio di Grillo e rinunciare ai ministeri per aprire le porte a una serie di illustri personalità indipendenti. Anche questo è il segno che qualcosa ribolle nella pentola dei 5S. Allo stesso tempo, anche il Pd è un partito ferito: come dimostra la scissione individuale di Calenda a cui dedicheremo spazio domani

RubricaL’Amaca
Il liberale immaginario

28 AGOSTO 2019
DI MICHELE SERRA
4 / 5

COMMENTA

CONDIVIDI

Il Berlusconi anziano, porcellanato e imperterrito che, uscendo dal colloquio con Mattarella, invoca una svolta liberale, una destra liberale, un futuro liberale per un'Italia liberale in un'Europa liberale, evidentemente si è sottoposto all'intervento di chirurgia plastica più arrischiato e definitivo: il lifting della memoria mediante l'asportazione delle parti scomode.
La morte della destra liberale (quel poco di cui disponeva l'Italia) è avvenuta soprattutto per sua mano. Salvini e il populismo sono figli suoi. L'idea di rottamare "il teatrino della politica" e sostituirlo con l'applauso plebiscitario dell'audience è figlia sua. La sostituzione dei cittadini con i consumatori è figlia sua. La riduzione della politica a un format mediatico, rendendo afasici e inservibili i famosi corpi intermedi, è figlia sua. È lui che coniò lo status di "unto del Signore" e di "eletto dal Popolo" come condizione che pone il leader al di sopra di ogni limite di potere, per primo il potere della magistratura. Lui che sdoganò ufficialmente, per primo, i neofascisti. Lui che comiziò (ben prima di Salvini) davanti a una vistosa selva di saluti romani: molti camerati, prima di venerare Salvini, venerarono lui.
Per sua sfortuna, la nostra memoria è ancora piuttosto vegeta. Ricordiamo bene gli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, le cadute di stile e l'ignoranza delle regole spacciate per simpatica spontaneità, la ridente distruzione del faticoso, inane lavoro dei padri (antifascisti) della Repubblica. Di una destra liberale avremmo un disperato bisogno tutti quanti, anche noi di sinistra. Che sia Silvio Berlusconi, a evocarla, è la prova provata che ne siamo ancora disperatamente lontani

ApprofondimentoBrexit
William Dalrymple: “Boris calpesta la Storia. Così il Regno si divide”

28 AGOSTO 2019
Secondo il celebre storico britannico con la chiusura del Parlamento, Boris Johnson ha imitato diversi sovrani inglesi del passato. Da Giacomo II d'Inghilterra a, soprattutto, Carlo I. Che per imporre leggi e balzelli fiscali, sospese il Parlamento e "esplose la guerra civile inglese"
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE ANTONELLO GUERRERA
0 / 5

COMMENTA

CONDIVIDI

LONDRA - "Ciò che ha fatto Boris è profondamente antidemocratico. Spero che faccia la fine di Giacomo II, cacciato in esilio, e non di Carlo I...". Lo auspica il celebre storico britannico William Dalrymple, 54 anni, in questi giorni in Europa, lontano dalla sua seconda casa India. Con la controversa chiusura del Parlamento per evitare ostacoli verso la Brexit dura, ieri Boris Johnson ha imitato diversi sovrani inglesi del passato. Giacomo II d'Inghilterra, che nel 1688 venne deposto dal popolo della "Rivoluzione gloriosa" dopo aver provato a scavalcare i parlamenti inglesi e scozzesi con i suoi "decreti cattolici". Ma i paragoni di questi giorni sono sopratutto con Carlo I, che per imporre leggi e balzelli fiscali, sospese il Parlamento.
E finì malissimo...
"Già. Esplose la guerra civile inglese (1642-1651, ndr) e nel 1649 la furia della folla decapitò Carlo I. Non vorrei che capitasse un destino in qualche modo tragico anche a Boris".
E magari una sorta di "guerra civile"?
"Non credo che ci sarà un conflitto armato nel nostro futuro e spero vivamente che non ci siano violenze. Ma certo decisioni come quelle di Boris ieri spaccano letteralmente il Paese a metà. Ciò non può portare nulla di buono".
La tensione è già molto alta.
"Colpa di Johnson. Siamo una democrazia parlamentare, non può calpestare così la Camera dei Comuni. Il referendum sulla Brexit nemmeno doveva esserci nel 2016. Come ha detto lo speaker della Camera John Bercow, la sospensione dei lavori del Parlamento è un oltraggio alla nostra Costituzione".
Che però non è una Costituzione usuale: sì la Magna Carta come base e poi una marea di cavilli, convenzioni (come quella che ha imposto alla regina di approvare il "decreto Johnson"), leggine parallele, precedenti. Tutto interpretabile a modo suo.
"È vero. Sinora la nostra "Costituzione" si è dimostrata molto flessibile. Non abbiamo "check and balances" (contrappesi, ndr) classici. Sarà molto interessante vedere se resisteranno di fronte a un premier che forza le regole. Ma questo è possibile soltanto in un caso".
Quale?
"Che le opposizioni e lo speaker della Camera Bercow difendano strenuamente la nostra democrazia plurisecolare. È il momento decisivo".
Si prospettano proteste molto dure, i laburisti hanno già detto che occuperanno il Parlamento e ne hanno già annunciato uno alternativo.
"È scontato. È stato un azzardo clamoroso. Anche perché a breve inizieranno a protestare anche i brexiter".
È curioso: in passato il Parlamento era espressione del popolo, contro i sovrani. Ora, Johnson e i brexiter sostengono che la Camera si oppone al popolo.
"Sta tutta qui la stortura di Johnson e dei suoi sodali. Porre il Parlamento in contrapposizione al "popolo" è una retorica incendiaria. Mi spiace perché non lo considero un politico autoritario. Ma mi pare passato nel lato oscuro come Darth Vader di Guerre stellari. Ha visto che governo ha? Priti Patel, la ministra degli Interni, era per la pena di morte. È un esecutivo di pazzi. Ora potrebbe saltare tutto il Regno Unito".
Lei è scozzese e al referendum per l'indipendenza nel 2014 votò per restare nel Regno Unito.
"Altri tempi. È cambiato tutto. A causa di quello che è accaduto ieri e del No Deal sempre più vicino, anche il Regno Unito potrebbe spaccarsi definitivamente dopo secoli. E io, da sempre unionista, la prossima volta voterò per l'indipendenza. Non mi faccio governare da questi estremisti inglesi


Nessun commento: