Politica Informazione Legalità Banche Centrali

mercoledì 28 agosto 2019

Noi, che siamo gente semplice, ci orientiamo con quattro bussole molto collaudate, che non ci hanno mai tradito. La prima è B.: se non vuole una cosa, è quella giusta. La seconda è Repubblica: se indica una strada, è quella sbagliata. La terza è Salvini: se chiede qualcosa, va evitato; se lo teme, va fatto. La quarta è Giuliano Ferrara: se sposa un governo, disastro assicurato (infatti, dagli anni 70, li ha sposati tutti, tranne il Prodi-1 e il Conte-1). Ora, sul Conte-2 giallo-rosa, la situazione è la seguente. B. e i suoi house organ lo temono come la peste bubbonica, perché “di estrema sinistra, pauperista e giustizialista”: quindi ottimo. Repubblica spara a palle incatenate, con titoli da Padania (“Voto subito, ma c’è chi dice no”), da Giornale (“Crisi di un governo mai nato”) e da Libero (“Fumata nera, futuro grigio”) e manda in tv volti imbronciati che non fecero una piega sui patti scellerati tra Pd e B., ma il putribondo Conte non lo digeriscono proprio: quindi il Conte-2 ha ottime chance. Il Pd, a furia di dar retta agli amorevoli consigli di Repubblica sull’appoggio a Monti, la rielezione di Napolitano, i governi con B. & Verdini, il Sì al Referenzum e il No al dialogo col M5S, s’è dissanguato: ora, smettendo di seguirli, potrebbe persino riaversi. Salvini si sbraccia per rimettersi con Di Maio o votare, ergo va deluso; e fa di tutto per evitare il governo giallo-rosa, che quindi diventa priorità assoluta.

Poi purtroppo c’è Ferrara: estenuato da ben 14 mesi all’opposizione dopo 50 anni al governo, stravede per il Conte-2. Ma non si può avere tutto dalla vita. E le altre tre bussole parlano chiarissimo. E non si esclude l’eterogenesi dei fini. Persino B. e Salvini, nel 2016, salvarono la Costituzione a loro insaputa col No al Referenzum. E persino Renzi, nella crisi più pazza del mondo, s’è reso utile senza volerlo svegliando un Pd già rassegnato al voto e al trionfo salvinista. Naturalmente può darsi che il Conte-2 abbia vita anche più breve del Conte-1, che M5S e Pd passino il tempo a litigare, che la salsa aurora giallo-rosa improvvisata nei pochi giorni concessi dal Colle impazzisca al primo intoppo, che la cura emolliente di Conte non appiani le enormi differenze e diffidenze fra Di Maio e Zinga, che presto Renzi prenda le sue truppe e butti giù tutto (anche se sarà difficile che le truppe lo seguano nell’harakiri). Il rischio di resuscitare Salvini sarà sempre in agguato. Ma è, appunto, un rischio. La certezza è che basta il primo vagito del Conte-2 perché Salvini non conti più nulla e non se lo fili più nessuno. E, come diceva Bossi di B. ai tempi d’oro, “se lui piange, state allegri: vuol dire che non ha ancora trovato la chiave della cassaforte”.

Un complottista piccolo piccolo

di Daniela Ranieri | 28 AGOSTO 2019





Ricordate Alberto Sordi in Un borghese piccolo piccolo, quando supera la “prova della morte” per iscriversi alla Massoneria bevendo l’amaro Montenegro? Ecco, l’altra sera Salvini, in conferenza stampa dal Senato (si vede che hanno chiuso gli stabilimenti balneari), pareva proprio il modesto impiegato della fu gloriosa commedia all’italiana che incarna (e cagiona) il trapasso nel dramma nazionale, il piccolo uomo che si infila in qualcosa di molto più grande di lui senza poter tornare indietro e rivelandosi poi con qualche caratterizzante dettaglio ridicolo.

È difficile resistere al fascino del dettaglio da peracottaro dentro una dichiarazione alla nazione annunciata in pompa magna e poi rivelatasi un guazzabuglio di frasi sconnesse, passivo-aggressività, sindrome del complotto e pure del bunker (sempre, però, in chiave inconsapevolmente parodistica: una specie di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini interpretato da Renato Pozzetto). Cercate il video sulla sua pagina Facebook, tra le cubiste che sculettano sull’inno di Mameli, le foto della bambina che gli è figlia sovraesposta senza cautela, cocomeri, tunisini scippatori, nigeriani spacciatori, tramonti sul cupolone e frasette romantiche: difficile dimenticare che l’uomo che esordisce in diretta rivendicando “Dignità, onore, coerenza” è lo stesso che due giorni prima di sbroccare, con l’annuncio della sfiducia a Conte, aveva incassato la fiducia sul suo decreto cosiddetto Sicurezza bis (quanto alla dignità, considerando che l’ultima conferenza stampa è stata fatta in bermuda dall’area aperitivi del Papeete Beach, si sono fatti passi da gigante).

È difficile, si diceva, sottrarsi all’ipnosi delle singole frasi, anche perché, deo gratias, dopo appena 20 giorni, mentre poco lontano si sta formando un nuovo governo, si apprendono per la prima volta i famosi “no” con cui il M5S avrebbe esasperato Salvini tanto da indurlo a rompere, e sarebbero i no su “giustizia, autonomia” e un generico “riforme”. Difficile non scrivere una satira (Giovenale: “Difficile est satira non scribere”) sui due capigruppo, di Camera e Senato, ritti ai suoi lati come due chierichetti, che fanno sì con la testa come a dare ad intendere che Salvini la sa lunga, che c’è tutta una strategia sua che sta seguendo, tutta una sua missione di salvatore della Patria insidiata da africani, sostituzione etnica, Renzi, Boschi, banche… bah.

“È un classico ribaltone all’italiana”, dice l’arcitaliano che ha ribaltato tutto; “non stiamo facendo appelli alle piazze”, aggiunge lodevolmente, non fosse che otto giorni fa aveva detto: “Tenete il telefono acceso. Perché se ci sarà da scendere in piazza per salvare l’Italia, la libertà e la democrazia ci saremo”. “È un tradimento della volontà popolare”, insiste, ben diversa da quella che ha assegnato a lui il 17% degli unici volti validi in democrazia per comporre i Parlamenti e dunque i governi, a meno che Salvini non consideri validi i like e i cuoricini sui social, mai così numerosi come a luglio.

“Abbiamo smascherato un giochino che qualcuno covava da tempo”, e qui siamo in presenza di un’inversione spazio-temporale, visto che semmai il giochino tra M5S e Pd è posteriore alla sua mattana, dunque è un buco nero logico o hysteron proteron, tipo il “Moriamo e lanciamoci in mezzo alle armi” dell’Eneide. Chi ha fregato chi, in questa storia? Che Renzi stia “cercando di rientrare dalla finestra”, ha ragione Salvini, è fin troppo evidente (del resto quello Renzi fa, da tre anni a questa parte). Ma mentre Salvini “governava” dalla sagra del lampredotto, Renzi era in giro a fare conferenze (pare pagate: incredibile quanto masochismo vi sia al mondo), e adesso, più che fare un governo (da cui si tiene fuori), pare volerlo capitalizzare, per avere il tempo di costruirsi la sua creaturina e perdere in proprio e non più in franchising.

Ma allargando lo zoom sul messaggio alla Nazione, pieno di “onore” e altri paroloni di scimmiottata fascità, pare evidente come Salvini sia stato toccato dal demone spietato che ha bruciato tutti i perdenti. Uno che dopo aver infranto tutto il frangibile, giocando con le Istituzioni come a Candy Crush, tenta prima una riunione con il fantasma di Berlusconi per rifare il centrodestra (tradotto: annettersi un 6% di voti), poi torna da Di Maio mendicando una riedizione del governo appena abbattuto, poi grida al complotto (precedente, dunque ontologicamente impossibile) di una conventio ad excludendum successiva, è ormai un eroe caduto dal suo piedistallo (che per lui è la consolle da dj, vabbè).

Si ravvisarono del resto segni del declino durante la sfiducia in Senato, quando concluse berlusconianamente (ma anche renzianamente), “Amor vincit omnia”, traducendolo “l’amore vince sempre”, e non “tutto”; nel quale tutto, ricorda Virgilio, è ricompresa la cupidigia, la sete di potere, l’ambizione e non solo il senno

Vicepremier o niente”. Le condizioni di Di Maio a Conte e Zingaretti


Prima lo stop, poi la ripresa - Altri ostacoli nella trattativa per la nuova maggioranza: il segretario Pd vuole posti di peso, il leader 5 Stelle insiste per il ruolo a palazzo Chigi

di Luca De Carolis e Wanda Marra | 28 AGOSTO 2019





La via verso il governo che va fatto per forza adesso è una partita a due. Con un terzo che sbatte i pugni e tiene il punto perché terzo non vuole essere e soprattutto diventare. Però le mosse nella partita tra Pd e Cinque Stelle ora le muovono innanzitutto loro, Giuseppe Conte, il premier dimissionario che a Palazzo Chigi vuole e deve restare, e Nicola Zingaretti, il segretario del Pd che l’esecutivo giallorosso non lo avrebbe mai fatto e che adesso comunque non vuole entrarci.

Poi c’è Luigi Di Maio, il vicepremier che ripete di voler rimanere tale per non essere tagliato fuori dai giochi e lo ha già detto in tutti i modi nella prima riunione vera, in quelle oltre quattro ore a Palazzo Chigi tra lunedì e martedì. Così Conte sta provando a (ri)mediare. “Il presidente ritiene che avere due vice agevolerebbe il suo essere figura terza tra i due partiti” spiegano con sillabe caute dalla presidenza del Consiglio. Insomma, meglio ripetere la formula già usata dal governo gialloverde. Ma per Zingaretti non si può fare, non si può cedere. A suo dire il Movimento ha già indicato il premier, l’avvocato che rivendica la sua terzietà ma che è pur sempre stato “scovato” dal M5S. E poi proprio Di Maio resterà comunque nel governo, forse come ministro della Difesa.

Se non sarà “discontinuità”, la parola che il segretario ripete da giorni, almeno deve essere incetta di posti di peso per i dem. Quindi un solo vicepremier, del Pd (Dario Franceschini) e ministri dem di peso all’Economia, agli Esteri e all’Interno. Questo chiede Zingaretti lunedì notte a Chigi: da dirigente che viene dal Pci si muove secondo i suoi codici. “Presidente, le ho portato le nostre rose per i vari incarichi” spiega a Conte, e il segretario porge al premier alcuni fogli con tre nomi per ruolo. Di Maio invece non ha pezzi di carta ma due obiettivi in testa, quello del vicepremier e il Viminale, ruolo che non chiede in via diretta nel vertice notturno ma che ha invocato a margine del tavolo. Ma la strada è in salita. Conte interviene due o tre volte, tenta di smussare gli angoli, ma dopo l’una aggiorna la seduta al giorno dopo, con una promessa: “Tutti rimarrete soddisfatti, lo garantisco, gestirò io tutto”. L’avvocato si pone nei panni della figura apicale. Non abbastanza però, per il Pd. Il clima è pesante. Tanto che la nuova riunione fissata per le 11 di ieri salta, sotto il peso dei reciproci veti. E anche della guerra di comunicazione: se dal Pd raccontano che Di Maio vuole tutto e ha chiesto tutto (il Viminale) e il problema è lui, dai Cinque Stelle sostengono che dal Nazareno non hanno ancora ufficializzato la scelta di Giuseppe Conte. La direzione dem, prevista ieri pomeriggio, viene riaggiornata a stamattina: nessuno è veramente convinto che l’accordo salterà, ma nessuno sa come ci si arriverà. “Un bel pasticcio”, dicono da più parti nei Democratici.

Alle 10 e 30 di ieri, arriva la prima telefonata tra il segretario del Pd e l’avvocato: cioè parte il filo diretto tra i due. E dai dem partono le richieste esplicite a Conte: “Prenditi tu la responsabilità della trattativa, togli dal tavolo Di Maio”. Ma anche nel gruppo parlamentare del M5S c’è nervosismo: “L’accordo va fatto, e Luigi lo deve capire”. Un segnale deve arrivare entro le 16, quando i big dem si riuniranno al Nazareno. Lo dice apertamente il capogruppo alla Camera Graziano Delrio: “Non è naufragato nulla, è inspiegabile l’annullamento della riunione di oggi da parte del M5s”. Attorno alle 14, Delrio cammina per una Montecitorio semi-vuota. E ripete il concetto: “Serve che Conte prenda l’iniziativa, e in fretta”. E d’altronde, “sul premier non c’è nessun veto, noi continuiamo a lavorare sui temi e attendiamo un segnale dall’altra parte”. Ma l’altra parte, cioè Di Maio, è nervosa. Dai vertici lo dicono sottovoce ma dritto: “Ci aspettavamo che Conte si dimostrasse un po’ più vicino al Movimento”. Partono telefonate incrociate tra i rispettivi staff. E da Palazzo Chigi fanno la precisazione che il vicepremier pretendeva: “In presenza di Conte non è mai stata avanzata la richiesta del Viminale per Di Maio”. È la tregua, e dal M5s mandano segnali di pace: “Bene la chiarezza fatta dalla presidenza del Consiglio, al contempo accogliamo positivamente le parole di apertura di alcuni esponenti del Pd sul ruolo di Conte: sì a un dialogo su programmi e su temi”. Pare la nota che potrebbe sbloccare quasi tutto. Ma il nodo principale rimane, Di Maio vuole restare vicepremier. E non sente ragioni. Zingaretti e Conte si sentono ancora, con il segretario dem che chiede al premier di risolvere la grana. Mentre il Pd lo ripete sulle agenzie: “Di Maio vuole ancora quel ruolo”.

E nei 5Stelle la prendono male. I capigruppo delle rispettive parti s’incontrano ugualmente alla Camera. Al termine i 5Stelle Patuanelli e D’Uva parlano di “buon clima”. Ma dai vertici del Movimento raccontano una verità diversa. E accusano: “I dem hanno manifestato riserve sul blocco degli inceneritori e delle trivellazioni. Hanno presentato un documento senza riferimenti alla revoca delle concessioni autostradali, alla riforma della giustizia e al conflitto d’interesse. Eppure hanno avuto 20 anni per fare certe riforme”. Ma non finisce qui, assicurano: “Anche sul taglio dei parlamentari sono stati morbidi, ma va fatto entro settembre”. È un segnare la distanza, mentre i capigruppo a 5Stelle precisano: “Andiamo a riferire al nostro capo politico, si parla con lui”. Cioè con Di Maio. E non con qualcun altro. Magari Conte, il premier che dovrebbe fare un governo

Sponsorizzato da Ente Nazionale Germanico Turismo


Eniente. Sono tornati. Come chi? Ma gli animisti finanziari, quelli che, dicendosi democratici (e magari #antifa), venerano il dio detto “I Mercati” e guardano l’andare e venire dello spread sui titoli di Stato come un tempo i loro antenati le interiora degli animali: guardano, guardano e alla fine ne traggono auspici per il futuro. Ora, i rendimenti sui Btp calano da fine maggio-inizio giugno: un animista finanziario (non #antifa) avrebbe potuto dire che “I Mercati” era felice per la vittoria di Salvini alle Europee. Siccome, però, gli interessi sui Btp hanno continuato a scendere anche ora (ma “I Mercati” non odia l’incertezza?) si dice invece che quell’imperscrutabile divinità è felice per l’estromissione di Salvini dal governo e l’arrivo dei buoni. E vabbè, se non lo fanno gli animisti ci pensiamo noi a mandare tanti saluti a Mario Draghi, alle sue mezze parole sul prossimo Quantitative easing (ci si vede il 12 settembre), alla discrezionalità con cui la sua Bce, reinvestendo la liquidità di quello vecchio, interviene su “I Mercati” per coprire (oggi) o scoprire (maggio 2018) le operazioni politiche a seconda che siano o meno di suo gradimento. Un saluto anche per “l’anti-sistema” Donald Trump, che benedice “Giuseppi Conte” come un Donald Tusk qualunque e si augura la sua permanenza a Palazzo Chigi coi democratici: l’establishment si è chiuso, viva i giallorosé. Non si sa se è una buona notizia, però una cosa va detta: Mattè, t’hanno rimasto solo…

Le capriole dei giornali di destra

di Massimo Fini | 28 AGOSTO 2019





La formazione del governo 5 Stelle-Pd, che mi si consenta, pardon mi si permetta, io avevo previsto (“Il Pd ammetta l’errore: vada al governo col M5S”, Il Fatto, 9.8.19) prima ancora che Matteo Salvini desse la spallata decisiva, con un autentico autodafé, al proprio esecutivo in cui svolazzava libero e felice da mane a sera, ha fatto letteralmente impazzire i giornali che sarebbe offensivo per la destra, che è o almeno è stata una cosa seria, definire di destra.

Lasciamo perdere l’aggettivazione normalmente sobria di questi giornali (“L’orrendo governo giallorosso”, La Verità; “Un esecutivo di stolti”, Feltri, Libero; “Non c’è pace fra i cretinetti”, sempre Feltri) e concentriamoci solo su alcune delle acrobatiche capriole, da veri saltimbanchi, cui sono stati costretti. Scrive Feltri che il nuovo esecutivo “bacerà le pantofole ai fessi dell’Europa”. Ma come, i 5Stelle non erano stati accusati di antieuropeismo e di voler addirittura uscire dall’euro, tanto che Paolo Savona, indicato da Luigi Di Maio come ministro dell’Economia, fu costretto a rimettere il mandato?

“Nasce il governo più impopolare della storia”, Franco Bechis sul Tempo. Ma come, l’attuale presidente designato, succeduto a se stesso, non era nei sondaggi il più popolare dei politici italiani, più dello stesso popolarissimo Salvini?

“Il governo più a sinistra della storia della Repubblica”, scrive Sallusti aggiungendo con accezione negativa che “non il popolo ma il Parlamento è sovrano”. Ma come, in queste settimane non hanno insistito tutti, ma proprio tutti, sulla “centralità” del Parlamento? Che poi in linea generale questa affermazione sia vera e cioè che nelle democrazie parlamentari il popolo non conti nulla (io l’ho scritto in Sudditi. Manifesto contro la Democrazia) vale però per questo governo come per quello precedente come per tutti i governi che si sono succeduti dalla nascita della Repubblica. È troppo comodo, troppo facile, accorgersene quando si viene sconfitti e prendere il sistema per buono quando si è vincenti. “Perdenti al governo”, Il Giornale. Per la verità i “perdenti al governo” erano quelli di prima, perché ci era andata la Lega che aveva il 17 per cento contro il 18,7 del Pd. Ora al governo ci sono i due partiti usciti vincenti dalle ultime elezioni, i 5Stelle con il 32,7 per cento e il Pd appunto con il 18,7 per cento. Che cosa c’è di strano, che cosa c’è di scandaloso, sempre ragionando in termini democratici, se i due primi partiti si mettono insieme per governare? In Germania si sono fatte grosse koalition tra l’Spd socialista e il partito centrista di Angela Merkel senza che nessuno ululasse all’“inciucio”.

Matteo Salvini, come già prima Renzi, si è fatto ubriacare dalla vittoria nelle elezioni europee, ma purtroppo per lui, per i suoi seguaci, per i suoi sgomenti sostenitori mediatici, in Italia, allo stato, valgono le elezioni politiche italiane.

L’“orrendo governo”, mi spiace per i “perdenti”, durerà sino alla conclusione della legislatura. Sarebbe davvero pazzesco che 5Stelle e Pd ripetessero la disastrosa mossa di Salvini sfasciando il nuovo governo in qualche momento del suo percorso perché ciò significherebbe la loro fine politica, come ha segnato quella, almeno per il momento, di Salvini. Errare è umano, perseverare è diabolico

Sì alla Costituzione (da attuare), no al male minore

di Silvia Truzzi | 28 AGOSTO 2019





Ieri, su queste pagine, è stato pubblicato un bellissimo appello, che abbiamo preso molto sul serio anche perché firmato da alcuni amici – su tutti Tomaso Montanari e Francesco Pallante – che sono stati compagni di strada nella battaglia in difesa della Costituzione dal tentativo di sfregio per mano di Renzi. Il manifesto per il nuovo governo giallo-rosa (non diciamo giallo-rosso, non certo per non disturbare gli amici romanisti, ma perché di rosso al Pd è rimasta al massimo la vergogna) contiene spunti programmatici estremamente condivisibili. I dieci punti sono ispirati all’articolo 3 della Carta che tutela la persona e la sua dignità (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale) e garantisce l’eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali, razza, lingua religione e sesso (come volle in particolare Teresa Noce) e che al secondo comma impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (grazie a Teresa Mattei che, in accordo con altre costituenti, propose l’inserimento della locuzione ‘di fatto’).

Già solo il primo punto ci fa battere il cuore: “Legge elettorale proporzionale pura, perché è l’unica che faccia scattare tutte le garanzie previste dalla Costituzione”. Sottoscritto con dodici sottolineature (specie in caso di taglio dei parlamentari). Difesa dell’ambiente, dei beni pubblici, a partire dall’acqua e dalla città: “Unica Grande Opera la messa in sicurezza di territorio e patrimonio culturale”. Garantire l’autonomia della magistratura: mai come oggi è un imperativo, viste le minacce ripetute della vecchia (Berlusconi) e nuova (Salvini) destra; ricostruire la progressività fiscale; superare la precarietà, adottare il salario minimo e ripristinare l’articolo 18; rifinanziare il Fondo sanitario; abolire il reato di immigrazione clandestina, con abrogazione dei decreti Sicurezza; restituire scuola e università alla missione costituzionale. E poi ancora: centralità della donna come metro di un’intera politica di governo e lotta alla povertà.

Onestamente: è, sarebbe, un ottimo programma, e forse purtroppo anche un libro dei sogni (ci si domanda perché il Pd che con tanta fatica ha abolito l’articolo 18, dopo i vari tentativi di governi sulla carta più di destra, dovrebbe ora ripristinarlo). Sottolineando i limiti (contarli sarebbe stato troppo lungo) di M5S e Pd, l’appello spiega: “Non possiamo dire che c’è un pericolo fascista, e subito dopo annegare in quelle incomprensibili miserie di partito che hanno così tanto contribuito al discredito della politica e alla diffusa voglia del ritorno di un capo con pieni poteri”. Dunque il male minore. Ma il male minore è un concetto molto sfuggente e parecchio relativo. Una volta il babau era Berlusconi, adesso è Salvini. La falla nel ragionamento – estremamente regressivo – è che, avallando il tanto meglio tanto peggio, i partiti continueranno ad avere (la parabola del Pd è esemplare) la scusa per non essere migliori. Perché ogni male è il minore di un altro che ci si prefigura peggiore: e si può continuare all’infinito, non toccando mai davvero il fondo. Le urne sono uno spauracchio per molti: nemmeno noi vogliamo un ritorno delle destre (né vecchie né nuove, né liberali né d’ordine). Però il voto è una soluzione di cui una democrazia non può mai – mai – avere paura

L’Inter non è più pazza. Archiviato pure l’inno. Basta emozioni, ci vuole disciplina

di RQuotidiano | 28 AGOSTO 2019





Ammetto perché ne sono convinto: l’inno dell’Inter non era e non è uno dei migliori al mondo. Con un enorme però: era entrato nelle nostre vite, nelle nostre teste e nei nostri cuori. Eppure ora non va bene, archiviato, neanche spedito in pensione. Proprio addio. Perché? Non sono un nostalgico a prescindere, ma questo desiderio di archiviare ogni sentimento lo considero assolutamente dannoso, e anti-calcio: il pallone è in parte basato su sentimenti e dogma, mentre qui vogliono portare la razionalità che, per carità, in alcuni contesti va pure bene. Non sempre.
Luca D’Antonio

La citazione non è delle più eleganti e ce ne scusiamo, ma il commento che ci sorge spontaneo, a proposito della soppressione dell’inno “Pazza Inter” decisa dal club e messa in pratica lunedì sera in occasione di Inter-Lecce 4-0, è quello che Paolo Villaggio rese celebre ne “Il secondo tragico Fantozzi” quando, chiamato a giudicare il film “La corazzata Potemkin”, il rag. Fantozzi la definì per l’appunto “una cagata pazzesca” ricevendone in cambio una standing ovation impreziosita da 92 minuti di applausi e da un diretto al volto del sadico professore Guidobaldo Maria Riccardelli, responsabile della sevizia, spedito al tappeto. “Pazza Inter”, copyright Rosita Celentano, era (è) un bellissimo inno di calcio: fresco, allegro, coinvolgente, lontano dalle trite retoriche di peana consimili, un inno in cui il concetto di vittoria è appena accennato perché, appunto, l’Inter si ama a prescindere, per come Dio l’ha fatta, per le emozioni che da sempre regala, nel bene come nel male. “Amala! Pazza Inter amala! È una gioia infinita, che dura una vita, pazza Inter amala! Vivila! Questa storia vivila. Può durare una vita o una sola partita, pazza Inter amala!”.

L’inno più bello, orecchiabile ed educativo del calcio, l’inno che dal 2003 accompagna le partite dell’Inter e che ha scandito i giorni del trionfale e indimenticabile triplete 2010, è stato silenziato. Motivo: ad Antonio Conte, cresciuto alla scuola juventina dove il motto è “Vincere è la sola cosa che conta”, non piace. A lui non interessa una squadra pazza, interessa una squadra vincente. L’aveva detto in conferenza stampa, il giorno della presentazione, ed era sembrato un sinistro presagio. Invece era qualcosa di più. Era un cambio di dna, la nascita dell’Jnter. Se permettete, una cagata pazzesca.
Paolo Ziliani

Franceschini vs. Orlando. È sfida per il vicepremier


Nazareno - Nel partito si sgomita per trovare gli incastri sulle nomine “Zinga farà tutti felici”, tranne se stesso: la discontinuità non si vede

di Wanda Marra | 28 AGOSTO 2019





Andrea Orlando o Dario Franceschini vicepremier? Nella serata di ieri, pareva aver vinto il secondo. Che si sarebbe persino guadagnato la delega ai Rapporti con il Parlamento, perché “serve uno che riesca bene a guidare i processi”.

Per il vicesegretario del Pd, invece, si lavora al ministero dell’Interno. E poco importa che Marco Minniti, che quel posto lo sognava da quando l’ha lasciato, sia praticamente sparito dai radar. Troppi nemici, a partire dai renziani, troppe perplessità su una competizione a distanza con Matteo Salvini.

La battaglia si sposta dentro al Nazareno, dove lo stato maggiore del Pd si riunisce in pianta stabile da giorni. Ai tempi di Matteo Renzi la chiamavano war room, con Nicola Zingaretti si definisce “cabina di regia”. E se durante i primi giorni della crisi, il conclave democratico lavorava per elaborare la strategia per affrontare la trattativa con i Cinque Stelle, ora questa è immediatamente diventata interna.

Ieri con il segretario c’erano il presidente del partito Paolo Gentiloni, i due vicesegretari, Orlando e Paola De Micheli, i capigruppo Andrea Marcucci e Graziano Delrio e le due vicepresidenti dell’assemblea Debora Serracchiani e Anna Ascani.

Ma in questi giorni passano continuamente tutti. Franceschini non aveva nessuna intenzione di farsi da parte. D’altra parte per il governo con i Cinque Stelle ci sta lavorando praticamente dal 5 marzo del 2018.

Zingaretti avrebbe preferito Orlando (non a caso ieri nel tavolo con i Cinque Stelle sul programma nella delegazione è apparso Andrea Martella, da sempre fedelissimo del Guardasigilli). “Zingaretti riuscirà a accontentare entrambi”, raccontano nel partito. Meno se stesso, verrebbe da dire: nel governo, il segretario avrebbe voluto profili nuovi, gente non troppo compromessa con le gestioni precedenti. Non andrà a finire così: in troppi dentro al partito vedono l’operazione in corso come la possibilità di tornare al governo. Fino a qualche settimana fa, un miraggio. Però, la leadership di Zingaretti si fonda proprio sulla mediazione. E ieri nel partito definivano una vittoria il tramonto di Luigi Di Maio e il filo diretto stabilito con Giuseppe Conte.

Per tornare al Nazareno, si tengono alla larga Matteo Renzi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi. A rappresentarli tutti c’è Marcucci, che negli scorsi giorni faceva la spola tra la scuola di politica dell’ex premier, a Lucca e il Quirinale. Renzi, però, non perde il filo: in questi giorni ha mantenuto il contatto con Zingaretti, assicurando lealtà e sostegno (“Nicola stai sereno”, non l’ha ancora detto, ma per i più è solo questione di tempo) e soprattutto ieri ha fatto intervenire Francesco Bonifazi. “Sono uno serio e responsabile. Credo al Governo Istituzionale. E mi va bene anche Conte. Ma se devo accettare Di Maio al Viminale, per me si può andare a votare subito”. ha twittato, tanto per ribadire che i renziani stanno sul carro del vincente.

La contesa tra Orlando e Franceschini copre quasi tutto il resto. E però, a ben guardare, di battaglie intestine ce ne sono pure altre. A partire da quella per il ministero alle Pari Opportunità. In corsa ci sono Lorenza Bonaccorsi, pupilla di Paolo Gentiloni, rimasta fuori dal Parlamento, Tommaso Cerno, entrato in quota Renzi e trea i primi a porgere la mano ai Cinque Stelle e pure Monica Cirinnà, che può vantare la battaglia per le unioni civili ai tempi di Renzi.

Mistero aleggia pure su un’altra figura: Gentiloni. Finito nel mirino di Renzi come quello che ha cercato di far saltare l’accordo, per lui si è parlato della guida della Farnesina (al momento improbabile) o di Bruxelles. Ma sul suo ruolo, pare che la decisione finale spetti a Sergio Mattarella. E Carlo Calenda prepara l’uscita: non parteciperà alla direzione Pd di oggi, come ha annunciato all’Ansa

 Luca De Carolis | 28 AGOSTO 2019





Il governo degli opposti è ancora un’ipotesi. Eppure parlamentari e dirigenti del Pd già telefonano, mandano sms, insomma si aggrappano ai Cinque Stelle: “Ora dobbiamo accordarci sulle Regionali, pensare a come fermare Salvini sui territori”. La politica non si ferma neppure un attimo, basta l’odore anche vago di urne e la possibilità di nuovi intrecci che magari potrebbero essere alleanze. Così ecco che già viene allo scoperto il deputato dem Walter Verini, commissario nell’Umbria dove si voterà a fine ottobre, dopo che la giunta dem è franata per i colpi dell’inchiesta giudiziaria sulla sanità locale: “Il dialogo con il M5S, a prescindere da quello che accade a Roma, è aperto”. Parla di accordi Verini, storico veltroniano, e lo fa scegliendo certe parole: “In Umbria non stiamo parlando di una trattativa tra partiti ma dell’incontro su un progetto civico-sociale avviato”. E l’aggettivo che vuole essere miccia è quello, civico.

Perché il Movimento che negava come lo sterco del demonio ogni ipotesi di alleanze, ma che ormai sta facendo saltare tutti i vecchi dogmi, ha aperto anche quella porta, con le nuove regole fatte votare sulla piattaforma web Rousseau lo scorso luglio. (Pochi) iscritti hanno detto sì “alla sperimentazione di alleanze con le liste civiche, solo in alcuni casi, su proposta del capo politico e comunque “da ratificare” con il voto online. Tradotto, Luigi Di Maio potrà scegliere dove e come fare accordi. Naturale quindi che il Pd ammicchi già a progetti civici, a liste magari senza simbolo di partito e con tanti esterni a diluirne la derivazione. Dopodiché c’è l’altro lato della politica, quello delle valutazioni.

Così non può stupire quanto sussurra una fonte di governo del Movimento: “Dovremo per forza porci il tema degli accordi a livello locale, ma come facciamo ad allearci con il Pd in Umbria e in Calabria con i guai giudiziari che ha avuto in quelle regioni?”. Obiezione comprensibile, visto che i dem umbri si sono ritrovati con il segretario regionale e un assessore arrestati e la governatrice Catiuscia Marini indagata. Mentre in Calabria, dove si voterà tra fine anno e l’inizio del 2020, il governatore del Pd Mario Oliverio è indagato per peculato, nell’ambito di un’inchiesta che il 5 agosto ha portato la Guardia di finanza di Catanzaro a sequestrargli oltre 90 mila euro. Non è proprio un viatico a rincorrersi, anche nel nome del no a Salvini. Però il tema c’è, tutto. Ed è un nodo che già preoccupa nell’Emilia Romagna dove si voterà a gennaio, una preda che la Lega già pregusta da mesi. Tanto che a inizio agosto ha già lanciato come candidata alla presidenza Lucia Borgonzoni, sottosegretaria bolognese alla Cultura.

Nel Pd dicono da settimane che una sconfitta elettorale nel fortino rosso potrebbe costare carissima al segretario Nicola Zingaretti. Prima che però si aprisse la partita dell’esecutivo giallorosso. Ma il rischio di schegge rovinose dalle urne resta, eccome. Per questo il governatore Stefano Bonaccini si è mosso da settimane, cercando di fiutare che aria tira nel Movimento. “Con il M5S il Pd ha molte meno differenze che con la Lega” gli hanno sentito dire. E poi i 5Stelle in Emilia hanno come figura apicale un veterano di peso nazionale come il bolognese Max Bugani. Il principale, dichiarato fautore dell’apertura alle liste civiche, e non può essere un dettaglio. Ma dalle parti della via Emilia è tutto un ribollire di umori e posizioni diverse.

Così la consigliera regionale del M5S Silvia Piccinini fa muro: “Sto sentendo in queste ore di un presunto patto di desistenza per le elezioni regionali, probabilmente proposto dal Pd. Mi sembra fuori da qualsiasi logica anche solo pensare di poter accettare una simile richiesta. E mi auguro non lo sarà”. Ma i confini della partita sono ancora più larghi, perché il sindaco di Parma è l’ex grillino Federico Pizzarotti, ormai lontano dal Movimento dopo anni di dissidenza passati a invocare democrazia interna e nuove regole. E pesa, Pizzarotti, con la sua lista Italia in Comune. Tanto che un mese e mezzo fa, Bonaccini ha pranzato con lui per gettare le basi di una coalizione di centrosinistra, con dentro la lista del sindaco e i Verdi. Logico chiedersi: il M5S potrebbe entrare in questa alleanza, e soprattutto Pizzarotti, nemico dei nemici di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, potrebbe mai accettare? “Molto difficile conoscendolo” dicono da Parma. Insomma, il gioco degli incastri appare arduo. Però mancano ancora mesi.

Sufficienti per provare quello che appare quasi impossibile, almeno in Emilia Romagna. Perché invece in un’altra regione dove si voterà nel 2020, la Liguria, la capogruppo del M5S Alice Salvatore, si è esposta qualche giorno fa sul Secolo XIX: “Se il dialogo con altre forze politiche è apertura sui temi e convergenza sugli obiettivi, si può fare, se è pura alleanza elettorale è poco serio”. E detto da Salvatore, vicinissima a Grillo, colpisce. Parecchio. Sullo sfondo i dubbi dell’europarlamentare Ignazio Corrao, già tra i referenti nazionali per gli Enti locali: “Non penso che alleanze di questo tipo tra noi e il Pd si possano fare, sui territori ci combattiamo da anni”. Nella voce un po’ di stanchezza, e poi un pensiero: “Poi, certo, se i dem facessero liste con persone perbene sarei contento, da cittadino”. E gli accordi sono comunque un’altra cosa

Nessun commento: